Processo al Decreto Dignità, analisi del ricercatore Martinelli

5 agosto 2018 | 14:25
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Processo al Decreto Dignità, analisi del ricercatore Martinelli

di Valerio Martinelli
Se per alcuni il venerdì 13 è un giorno legato per superstizione alla mala sorte, per gli osservatori – più o meno attenti – di questa legislatura, il venerdì 13 luglio passato ha segnato una tappa importante, giacché ha visto la tanto attesa pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell’ormai celebre “Decreto Dignità”, o, pi correttamente, del d.l. (decreto legge) 12 luglio 2018, n. 87 che reca il titolo di “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”, in vigore a tutti gli effetti dal giorno successivo alla sua pubblicazione, immesso poi nella discussione parlamentare dallo scorso lunedì 16 luglio (“incardinato”, come si è soliti dire, nelle commissioni Lavoro e Finanze della Camera dei Deputati) e approvato qualche giorno fa dalla Camera – con 312 sì, 190 no e un astenuto – con alcune modifiche al testo originale per poi passare all’esame del Senato.
Vale la pena ricordare infatti che il decreto legge è quella particolare forma di atto normativo prevista dall’art. 77 (ed in parte anche dall’art. 72) della nostra Costituzione, che il Governo può adottare ‘in casi straordinari di necessità e d’urgenza’ e proprio per questa sua natura straordinaria, ha un’efficacia che potremmo definire provvisoria: entra in vigore e produce i suoi effetti dal giorno successivo alla sua pubblicazione – come abbiamo visto – ma se non viene convertito in legge dal Parlamento entro 60 giorni dalla pubblicazione stessa, non produce più i suoi effetti.
Quel che qui ci interessa è valutare la portata delle previsioni di questo particolare decreto, considerando anche le proposte di emendamento (ovvero di modifiche che potrebbe subire nel corso dell’iter di conversione in legge nel dibattito parlamentare) emerse sinora, tenendoci ben alla larga da sensazionalismi o catastrofismi di sorta.
Andando nel merito delle disposizioni del d. l. 87/2018, che si componeva all’origine di 15 articoli, vediamo come in realtà le materie disciplinate sono più d’una: tra le tante, vi è un nuovo regime per alcuni contratti di lavoro (in special modo per quelli a tempo determinato, ma viene anche incrementato l’indennizzo erogato in caso di licenziamento illegittimo che era previsto dai c.d. contratti a tutele crescenti, introdotti dal Jobs Act), ma vi sono anche previsioni concernenti il gioco d’azzardo (ed in particolare si introduce il divieto di pubblicità – per cui il nuovo testo approvato dalla Camera ha ulteriormente inasprito le sanzioni previste – per quelle attività, nuove regole formali per i gratta e vinci e l’utilizzo obbligatorio della tessera sanitaria per giocare alle slot), norme sulla lotta all’evasione (“congelando” di fatto il famigerato redditometro, che non potrà più essere utilizzato per gli anni di imposta 2016 e successivi, grazie all’abrogazione di un provvedimento attuativo del 2015), e al contempo sanzioni per quegli imprenditori che, dopo aver ricevuto aiuti di Stato, “delocalizzano” (imponendo la restituzione con gli interessi di quegli aiuti a coloro che trasferiscono la produzione o parte di essa in Italia od in Paesi dell’UE, e prevedendo sanzioni ben più aspre – fino al quadruplo degli aiuti ricevuti – per chi delocalizza – per trarne vantaggi economici ovviamente – in Paesi extra-UE) e per coloro che riducono i propri occupati. A seguito del lavoro della Camera sono poi stati reintrodotti anche i famigerati voucher, che potranno essere utilizzati – come forma di pagamento del lavoro di pensionati, disoccupati studenti fino a 25 anni e percettori di forme di sostegno al reddito – non più solo dalle imprese agricole ma anche dalle piccole imprese alberghiere (con un massimo di 8 dipendenti) per una durata massima di 10 giorni.
Un decreto “omnibus”, come si sarebbe detto un tempo: un po’ su tutto, su tante materie disparate, in cui, forse, si fa fatica a trovare un disegno organico od unitario. Visto però che il suddetto decreto è stato annunciato ormai da giorni come la “Waterloo del precariato”, vale la pena spendere qualche parola in più sulle previsioni in merito al mercato del lavoro, che più delle altre stanno acquisendo spazio nel dibattito pubblico quotidiano, vista l’immediata e diretta produzione di effetti sulla realtà socio economica nazionale e locale, nelle nostre imprese e nei nostri territori.
Il Decreto Dignità interviene prevalentemente sui contratti a tempo determinato (alla cui nuova disciplina vengono assoggettati anche i rapporti di somministrazione di lavoro: un unicum, secondo alcuni), prevedendo, in primo luogo, che la durata complessiva di un “rapporto a termine” (quindi a tempo determinato) non possa superare i 24 mesi (finora erano 36) e che all’interno del limite di questi 24 mesi siano ammissibili solo 4 proroghe o rinnovi (finora, 5) del contratto (ad esempio si potranno stipulare 4 contratti da 6 mesi ciascuno). E in occasione di ogni rinnovo, si prevede un incremento contributivo per il datore dello 0,5% da sommarsi all’1,4% già previsto dalla legge Fornero.
Si tassa il rinnovo dei contratti a termine, insomma, nella speranza che questa imposizione funga da incentivo per la stipulazione di contratti a tempo indeterminato: storicamente i risultati in questo senso – va detto – non sono stati molti.
Oltre a ciò – e questo è forse il punto più discusso e che sta dando da fare ai nostri rappresentanti nelle commissioni parlamentari -, si prevede che solo i primi 12 mesi di contratto a tempo determinato possano essere stipulati in modo “libero”, ovvero senza che il datore giustifichi l’esigenza oggettiva (o “causale”) che lo ha spinto ad assumere a tempo determinato il lavoratore: i successivi eventuali 12 mesi di contratto devono essere motivati oggettivamente.
Sì, in questo sta l’aspetto controverso che tanto dibattito sta suscitando: il Decreto Dignità ha reinserito nel sistema le causali – introdotte nel 1982, poi eliminate dal Decreto Poletti del 2014 dopo che in tanti anni non avevano prodotto altro risultato se non quello del moltiplicare il contenzioso – per i contratti a tempo determinato o i rinnovi degli stessi che travalichino i 12 mesi. Il datore di lavoro dopo i 12 mesi già svolti, potrà attivare con lo stesso lavoratore un contratto a tempo determinato solo per “esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria” oppure per necessità “temporanee e oggettive, estranee all’attività ordinaria o per esigenze sostitutive di altri lavoratori”.
La nuova versione del testo approvata dalla Camera prevede – forse a mo’ di sanzione per il datore – anche che se non verranno indicate le causali dei rinnovi, superati i 12 mesi di contratto a termine, i contratti in questione si trasformeranno, di diritto ed automaticamente, in rapporto a tempo indeterminato.
Il vero problema però sta nel fatto che – anche se è molto difficile fare previsioni esatte, visto che comunque ci confrontiamo con scelte e comportamenti dei datori, difficilmente prevedibili nella loro totalità – stante il necessario rispetto di queste causali e i nuovi aggravi contributivi, molti datori potrebbero essere scoraggiati a rinnovare contratti con lo stesso lavoratore dopo averlo tenuto 12 mesi, dovendo sobbarcarsi ulteriori oneri contributivi e il rischio di un contenzioso quasi certo, specialmente alla luce della modifica – appena considerata – inserita a seguito del passaggio alla Camera.
Non a caso, nelle ore di esame in commissione, sono state discusse proposte di emendamento che andavano a semplificare le causali – prevedendo un coinvolgimento attivo dei sindacati e della contrattazione collettiva nella loro individuazione – o a proporre una restituzione di quell’aggravio contributivo suddetto al datore, a mo’ di incentivo, nel caso in cui stipuli un contratto a tempo indeterminato con il lavoratore a cui aveva offerto un rinnovo del contratto a termine.
Queste istanze sono state – purtroppo – sostanzialmente inevase e si é preferito prevedere (anche per superare il problema dei contratti già in essere “non in regola” con le nuove norme: si veda tutta la polemica sulle stime della relazione tecnica della Ragioneria dello Stato) un periodo transitorio fino al 31 ottobre: le nuove norme si applicheranno a nuovi contratti e rinnovi firmati dal 1 novembre 2018.
Curioso poi che – nonostante i vari proclami – siano state prorogate per il 2019 ed il 2020 quelle agevolazioni fiscali (decontribuzioni prevalentemente) già previste dalla precedente normativa del Jobs Act per le assunzioni a tempo indeterminato dei giovani sotto i 35 anni.
Si produrranno gli effetti sperati quindi? Si moltiplicheranno i rapporti di lavoro a tempo indeterminato? Difficile a dirsi, ad oggi. Quel che è certo però, è che anche se presentato come un radicale cambio di passo del mondo del lavoro e del welfare, a tutela della dignità del lavoratore e dell’impresa (e su quest’ultimo concetto forse bisognerebbe fare qualche precisazione), in realtà il Decreto Dignità sul fronte che a noi interessa, si presenta ad oggi come una raccolta di alcune disposizioni di dettaglio, vecchie e nuove, incapaci almeno per il momento di incidere significativamente sulle trasformazioni del lavoro di oggi.
Un’occasione in parte persa, sicuramente, per ripensare le politiche attive del lavoro nel nostro Paese e i nostri servizi per l’occupazione, che tanto avrebbero bisogno di un potenziamento intelligente e che certo rappresentano uno strumento importante – quello sì – per combattere la precarietà, rispettando la dignità del lavoro e stando al passo coi tempi.