



“Alle cene eravamo sempre tutti allo stesso tavolo. Sì, eravamo concorrenti, ma anche amici: se uno aveva un problema se ne parlava e si vedeva di risolverlo perché magari era successo anche a un altro oppure gli poteva succedere. C’erano tante cose da fare all’epoca e ci piaceva farle insieme”. Un modo che è diventato un sistema e dal quale, 50 anni fa, è nato il Consorzio conciatori di Ponte a Egola (qui Conciatori in posa per i 50 anni del Consorzio), nel consiglio direttivo del quale i Senesi, padre e figlio, sono stati a lungo. A raccontarlo a IlCuoioindiretta.it è Luano Senesi, 82 anni, fondatore della Marca Toro ed entrato in conceria quando aveva 13 anni e mezzo. “Per sei mesi – racconta – ho lavorato senza libretto di lavoro, perché quella volta lo davano a 14 anni”. Ha iniziato con il padre operaio conciario, poi, a 21 anni, ha aperto la sua prima conceria insieme a 3 amici. E come i 4 amici al bar di Gino Paoli è rimasto solo alla fine, ma tra quei bar di Ponte a Egola, con gli amici ha sognato di cambiare il mondo – il loro quantomeno – e di buttarsi in un’avventura che non sembrava impossibile.
Guanti, stivali e grembiuli di gomma, Senesi li racconta come conquiste di un modo moderno di lavorare, al pari di muletti e ascensori. Pensando a un periodo in cui “si programmava l’anno, ora si programma il mese. Di lavoro ce n’era tanto – racconta – anche se i primi clienti venivano da noi dicendo che andavano dai ragazzini. Eravamo giovani, tutti di 20 anni”, ma con la capacità di guardare lontano e una passione: trasformare le cose. “Ora, tu vedi un pezzo di pelle a pelo ma poi vedi una suola, una scarpa, una cintura o una borsa. Se ci pensi, è una cosa grandiosa”. Poi sono venute le mode, i colori, la capacità di anticipare i gusti degli stilisti, che già anticipano quelli dei clienti. Non solo fornire la materia prima, quindi.
Come si cambia
Quella passione, a 82 anni, Luano Senesi ce l’ha ancora, tanto che lo troviamo alla Marca Toro. “Mica lavoro è – racconta -, ma vado lì, sto in ufficio, chiacchiero con i clienti”. E sogna ancora, mentre guarda il figlio Massimiliano dirigere l’azienda con 11 operai oltre agli amministrativi. Una piccola azienda nei numeri dell’Economia, ma capace di adattarsi ai tempi e resistere. “Eravamo 140 più o meno, ora di concerie al cuoio saremo rimasti 10”. C’è la crisi, nel mezzo, ma c’è anche una selezione naturale che premia chi riesce a guardare lontano. “Quando ho iniziato – racconta ancora Senesi – il lavoro era faticoso. I miei genitori mi volevano mandare in Ferrovia ma io volevo andare con mio padre. Si portava tutto a spalla, era pesante. Però era bello: c’era tanto da lavorare. Adesso ci sono gli ascensori e i muletti, ma bisogna faticare per trovare i clienti”. In un certo senso, come in molti settori, la fatica fisica ha lasciato il posto a quella mentale e a vincere resta ancora chi sa guardare lontano, non ha paura di sporcarsi le mani e crede nella fatica. “In questi 50 anni, i cambiamenti sono stati tanti, a ogni livello. Ho visto che, con tutte le difficoltà, chi ha saputo anticipare i tempi è rimasto, chi ha aspettato e cercato di capire il presente, alla fine, non ce l’ha fatta. Noi siamo stati anche in 25 a lavorare, ma poi ci siamo dovuti ridimensionare”. La Marca Toro produce circa 1200 quintali al mese di cuoio finito. “Quando ho iniziato ne facevamo 70 o 80. Poi siamo arrivati a 300. Quella volta, il cuoio si comprava solo qui, da tutta la zona. Eravamo tutti piccolini, ma eravamo tanti e il bisogno si soddisfava. Poi, mentre i solettifici si ingrandivano, dovevamo farlo anche noi, perché le richieste aumentavano e per stare sul mercato dovevi essere in grado di soddisfarle. Chi non lo ha fatto è sparito. Non era facile, nessuno di noi aveva grandi capitali, però vedevamo che il lavoro c’era e questo ti dava il fiato e il coraggio per investire. Da 10 anni non c’è più una concia nuova… quella volta c’era una prospettiva. Pensa che il 99 per cento di noi, prima era operaio. Chi allora era imprenditore fallì. In questi anni è sparito un mare di calzaturifici e suolifici e adesso ci tocca andare in Cina e nei Paesi dell’est a vendere”.
Imprenditori con le mani sporche
“La domenica si andava al mare a Viareggio. Si partiva alle 8. Noi alle 6 eravamo in concia e poi alle 8 partivamo per il mare. C’era chi si alzava alle 10, ma ha chiuso. Si è salvato chi ha lottato, chi ha fatto l’operaio, chi ha continuato ad avere passione per il lavoro. Faccio un esempio: un giorno caricavo un camion con il muletto e l’autista mi ha detto che voleva chiedere al capo un pezzo di cuoio per risolarsi una scarpa. Gli ho detto: ‘Via, finisco qui e te lo prendo’, ma lui insisteva che lo voleva chiedere al proprietario. Ci ho messo un po’ a fargli capire che ero io davvero perché gli caricavo il camion con il muletto. La conceria, mi hanno sempre detto, ti vuole vedere in faccia”. E quella faccia, la Marca Toro la guarda ancora. Insieme a quella dell’unico figlio maschio che Luano e sua moglie hanno fatto studiare.
“Quando s’è laureato dottore in economia e commercio è voluto venire in azienda. Stava in ufficio con i ragionieri, ma come si fa a fare l’imprenditore senza conoscere l’odore della pelle, senza essere mai stato operaio, senza sapere i problemi che ci sono e come si risolvono? Allora ci sono stato male, però l’ho fatto venire giù con me: in ufficio c’erano i ragionieri in cravatta e lui che era laureato aveva le mani sporche. Adesso sono contento, perché sono stato fortunato ad avere un figlio bravo, ma anche perché è un imprenditore lungimirante, che sa bene di cosa parla. Io speravo di insegnargli qualcosa, ma invece lui ne sa parecchio più di me. Si prende la sua valigia, l’aereo e poi lui parla bene inglese, a noi mica serviva… lavoravamo con la gente di qui”. Eccola, in qualche modo, quella capacità di anticipare i tempi, restando con solide radici ancorate a terra, con l’odore della pelle nel naso ma lo sguardo capace di inglobare il mondo e una valigia di competenze che ti fa superare i confini.
Elisa Venturi