Ha curato quattro generazioni, Renzo Lapi va in pensione

20 febbraio 2017 | 15:27
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Ha curato quattro generazioni, Renzo Lapi va in pensione
Ha curato quattro generazioni, Renzo Lapi va in pensione
Ha curato quattro generazioni, Renzo Lapi va in pensione

Sta curando la quarta generazione e non ha del tutto intenzione di fermarsi. Dalle mani – e dagli ambulatori – del dottor Renzo Lapi sono passati tutti quelli che vivono a Balconevisi, La Serra e Corazzano, oltre a molti altri del resto del comune di San Miniato, visto che “sono arrivato ad avere anche più di 3mila mutuati”. Oggi la legge non lo consente più: una delle mille cose cambiate in questi 43 anni, dal quel 1 marzo 1974 quando prese servizio come medico condotto a La Serra. Dall’1 marzo, il dottor Lapi, originario di Santa Croce sull’Arno – dove è nato nel luglio ’48 -, vissuto tra Pontedera e Ponsacco – seguendo il papà direttore di banca -, laureato con il massimo dei voti e 6 mesi d’anticipo all’università di Pisa, sarà in pensione dall’Ausl “ma non da medico”, ci tiene a precisare, perché la sua, più che una professione, è sempre stata una missione.

“Molta gente l’ho vista nascere – spiega – e altra la curo da tutta la vita: come faccio a smettere, di punto in bianco? Non sarò più in ambulatorio, ma resto a disposizione, in attesa anche di vedere quale sarà la nuova organizzazione”. Il dottore ha iniziato a dare la notizia ai pazienti solo da qualche giorno, ma tra i mutuati la notizia è circolata velocemente. “Gli dico di stare tranquilli, che resto un medico e che l’Azienda si organizzerà”. Magari con un giovane medico, che come ha fatto lui, crescerà insieme alla comunità. Non è stato lui a scegliere La Serra ma, come spesso avviene, sono La Serra e San Miniato ad aver scelto lui. “Essendomi laureato prima del tempo – ricorda – ho dovuto aspettare 6 mesi per poter fare l’esame di Stato. Così mi fu proposto un tirocinio all’ospedale di San Miniato e io accettai. A gennaio sostenni e superai l’esame e il primo marzo del ’74 fui nominato medico condotto dal sindaco. A quel tempo funzionava così: il medico condotto non era solo il dottore di riferimento, ma aveva molte funzioni oltre a quelle sanitarie. Dovevamo, per esempio, occuparci degli indigenti. I medici erano, in sostanza, anche pubblici ufficiali, per questo venivano nominati dal sindaco con il voto del consiglio comunale. Al sindaco venivano sottoposti 3 nomi. Il sindaco di allora mi chiese come intendevo organizzarmi e io gli proposi due ambulatori: a Corazzano e Balconevisi. Mi guardò e mi chiese: ma sei sicuro di farcela?”.
Ce l’ha fatta per 43 anni. E, a sentirlo parlare, non ha per niente intenzione di smettere. “Non farò più ambulatorio, ovviamente. E non sono uno che frequenta i bar: non mi piace dare consigli medici per strada perché la scienza è scienza”. Anche se c’è molto di psicologia in ciò che fa un medico di famiglia. “Io non potrei fare diagnosi al telefono. Ho iniziato andando a casa della gente e poi ho continuato a farlo”. Per guardarli in faccia o forse perché le case delle persone aiutano un po’ la diagnosi, ti raccontano qualcosa del tuo interlocutore. In una piccola parete della sua ci sono lauree, attestati e nomine di una vita quella che, dice, “mi ha dato tanto, ma forse mi ha anche tolto qualcosa: ho sempre vissuto e lavorato qui, non ho visto cos’altro c’era fuori, perché a quel tempo, il medico di condotta doveva vivere dove operava. Io avevo 25 anni, per qualche anno ho mangiato ai Genovini e dormito in una stanzina in affitto. Poi ho comprato un pezzo di terra, acceso un mutuo e iniziato a costruire una casa”, dice raccontando qualcosa che a molti giovani pare impossibile. Per accogliere la famiglia che resta il fulcro della sua vita: la moglie insegnante di matematica da poco in pensione e molto attiva nel volontariato e la figlia che ha evitato di fare il medico, ma che un medico l’ha sposato. D’altra parte, il destino era come scritto: anche il nonno materno era medico condotto. “Durante l’alluvione del ’66 – ricorda – mio suocero faceva il Condotto a La Rotta. La mattina i pompieri lo passavano a prendere con il gommone e lo portavano a vaccinare le persone. I vaccini… lo sa? Io sono stato tra gli ultimi a vaccinare per il vaiolo”.
Non solo famiglia e lavoro, però. “A un certo punto – spiega – mi sono trovato a riflettere sul fatto che la vita mi stava dando tanto, che non avevo bisogno di niente e che, quindi, era giunta l’ora che dessi qualcosa indietro: sono stato in consiglio comunale e anche nel Cda della Fondazione. L’ho fatto per puro desiderio di servizio ma devo dire che come capita quando si fa volontariato, ho aperto la mente, vissuto nuove realtà, compreso meglio certi meccanismi. Probabilmente questo mi ha aiutato anche nella mia funzione di medico”. Il 27 febbraio sarà il suo ultimo giorno di ambulatorio, ma i rapporti personali costruiti in questi decenni non si chiudono con la porta dell’ambulatorio e per il dottor Lapi quella che si apre è una nuova strada: lui è difficile da tenere a casa. 

Elisa Venturi