Per non dimenticare: le sorelle Bucci tornate dall’inferno

3 febbraio 2017 | 19:44
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Per non dimenticare: le sorelle Bucci tornate dall’inferno
Per non dimenticare: le sorelle Bucci tornate dall’inferno
Per non dimenticare: le sorelle Bucci tornate dall’inferno
Per non dimenticare: le sorelle Bucci tornate dall’inferno
Per non dimenticare: le sorelle Bucci tornate dall’inferno
Per non dimenticare: le sorelle Bucci tornate dall’inferno

“Ci chiesero se volevamo raggiungere nostra madre, dovemmo dire di no. Per salvarci”. Parole di orrore, memoria e speranza protagoniste assolute di un incontro niente affatto usuale a Castelfranco, nel tardo pomeriggio di oggi 3 febbraio, in occasione del consiglio comunale aperto. Tatiana e Andra Bucci sono le sorelle fiumane di origine ebraica che nel ’44 piombarono nell’inferno di Auschwitz.

Una serata organizzata in occasione della Giornata della Memoria, quella “necessità di ricordare e conoscere” ribadita più volte anche dal sindaco Gabriele Toti, che ha introdotto la testimonianza delle sorelle di fronte ad una sala del consiglio gremita come non mai, di cittadini e ragazzi delle classi quarte delle scuole elementari del comune alla presenza, fra gli altri, del presidente dell’Anpi Luigi Possenti e della consigliera pregionale Alessandra Nardini. “Appuntamento assolutamente necessario soprattutto per i ragazzi, che non a caso avviene in una sala come questa che rappresenta il luogo principe della cittadinanza – ha detto il sindaco, che nel suo intervento ha voluto anche ricordare la figura di Lido Duranti, castelfranchese internato in via Tasso e rimasto coinvolto nell’eccidio delle Fosse Ardeatine –. Quegli stessi ragazzi con i quali alcuni mesi fa siamo andati in quei luoghi, ad Auschwitz. Un lungo viaggio nei campi in cui abbiamo tutti imparato quanto il racconto di quegli orrori si faccia ancora più vivido e terribile quando a raccontarlo sono i testimoni. Protagonisti di quel mondo solcato e diviso prima da razze e poi da muri che, putroppo, racconta anche un pezzo della nostra attualità”.

Una dura storia, quella delle due sorelle Bucci, che ha inizio in un’Europa segnata dall’intolleranza e si genera da una famiglia nata da un’unione mista: la madre, ebrea, sfuggita ai pogrom dall’Ucraina a Fiume e il padre, italiano e cattolico. “Si erano stabiliti in una città sul mare, perché da lì sarebbe stato più facile scappare” raccontano, insieme, alternandosi al microfono. “Fu proprio in quella città invece che un giorno i tedeschi ci vennero a prendere”. Era il 28 marzo ’44 e le due sorelline, con tutta la famiglia e il cuginetto Sergio, furono prelevate per essere portate, dopo la Risiera di San Sabba, nell’inferno di Auschwitz-Birkenau. ”Avevamo 4 e 6 anni quando vennero a prenderci. Eravamo a letto e fummo svegliate dalla mamma” racconta Tatiana. “Mi resterà per sempre quest’immagine indelebile: mia nonna che supplicava i militari di non portare via noi bambine. Finimmo tutti a San Sabba, in 8: tre bimbi e 5 adulti. Di lì, uno a uno, nei noti convogli merci. Non ho mai messo a fuoco quanti fossimo in quel vagone, 40 forse, senza alcun genere di conforto, tranne un secchio. Il 4 aprile arrivammo”.

Da quel momento l’inizio del calvario in solitaria, separate da una madre che, incredibilmente, rivedranno dopo due anni e mezzo, alla fine della guerra. E su tutto, la prima grande fortuna appena arrivate al campo. Un luogo da dove, raccontano le cronache, sono usciti vivi solo una cinquantina di bambini e 200mila vi morirono. “I bambini in gran parte finivano subito alle camere a gas – racconta Andra –. Il modo in cui eravamo acconciate e vestite, uguali, come ci teneva la mamma, ci salvò. Arrivate al campo ci scambiarono per gemelle e quindi assegnarono al Kinderblock, la baracca dei bambini predisposta nel campo per tutte le possibili cavie da esperimento del dottor Mengele. Sergio, nostro cugino, venne anch’esso assegnato a quel luogo con noi. Appena arrivati al campo, dopo una lunga marcia, fummo separate da nostra madre e poco dopo il tatuaggio: 76483, era il mio numero, non me lo scorderò mai”.

Di quei lunghi mesi i tanti “flash” che si imprimono nella memoria di un bambino di quell’età all’interno di un contesto come quello, fra cui quegli inquietanti cumuli bianchi. “A noi sembravano piramidi, noi ci giocavamo intorno” raccontano “ammassi di cadaveri imbiancati dalla calce, ne abbiamo visti molti”. In tutto questo, poi, le prime visite, sempre più sporadiche, della madre prima che sparisse. Quella stessa figura materna che fu il terribile discrimine fra la vita e la morte, fra loro e il cuginetto. “Per loro eravamo soggetti interessanti anche perché eravamo figlie di un uomo cattolico e di una donna ebrea, avevamo ‘sangue misto’. Ogni tanto vedevamo anche nostro cugino Sergio, anche se su di lui avevano iniziato subito a fare le prime visite antropometriche, misurazioni, prelievi di sangue” raccontano, ricodando quel consiglio che salvò loro la vita. Un monito sussurrato da una donna che si occupava della loro baracca dei bambini: ‘Ascoltatemi bene. Se vi radunano tutti insieme in fila e vi dicono: chi vuole rivedere la mamma faccia un passo avanti, te e tua sorella non vi dovete muovere. Ricordatevelo’. Lo dicemmo subito anche a nostro cugino Sergio, ma lui non ci diede ascolto e, quando fu il momento, fece quel passo. Non lo vedemmo più. Si seppe poi che fu usato come cavia, venne ucciso, insieme a tanti altri bambini, nel sotterraneo di una scuola di Amburgo”.

Un incubo che finì soltanto nel gennaio del ’45. “Capimmo che era successo qualcosa, improvvisamente ci trovammo circondate dai militari, ma diversi. Ci davano da mangiare, parlavano con noi. I tedeschi con noi non parlavano” raccontano. Da lì a Praga e poi a Londra, dove i pochi bambini ebrei superstiti furono seguiti per mesi all’interno di una casa d’accoglienza dove Andra e Tatiana poterono rinascere, ricominciare a vivere e frequentare le scuole. “Era un centro seguito da Anna Freud” raccontano. “Li riuscimmo per la prima volta a riprendere una certa normalità” continuano nel racconto. “Fino a quando un giorno ci fecero vedere una foto chiedendoci se quella donna, ritratta, fosse nostra madre. Di lì a poco, dopo più di due anni, la reincontrammo. Solo allora, per la prima volta, scoppiammo tutti in un pianto. Abbiamo pianto come mai più nella nostra vita. La pensavamo morta, eppure mai avevamo manifestato quel dolore. Era finita, e almeno con lei, eravamo insieme”. Una vita ricominciata, dopo una breve parentesi a Fiume, a Trieste. “La città era divenuta jugoslava e titina e quindi ci trasferimmo, Trieste è la nostra casa. Anni dopo, tardi, ci siamo convinte della necessità di coltivare la memoria nei ragazzi, anche in quei giovani eredi del popolo tedesco ai quali non sarebbe giusto accollare le responsabilità dei padri e nonni”.

Nilo Di Modica

Foto di Pietro Gandolfo