Carlotta Cambi, dalla prima palla alla carriera in A1

11 agosto 2016 | 11:02
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Carlotta Cambi, dalla prima palla alla carriera in A1
Carlotta Cambi, dalla prima palla alla carriera in A1
Carlotta Cambi, dalla prima palla alla carriera in A1

“Stavo dalla nonna mentre i miei genitori si allenavano in palestra, loro giocavano in serie D. Non capivo bene cosa volesse dire, ma li vedevo rientrare con il borsone. Una volta ho detto a mamma: ‘Anche io voglio rientrare con il borsone’. E a 4 anni ho iniziato a giocare a pallavolo”. Una passione, quella della palleggiatrice Carlotta Cambi, 20 anni di Montopoli, alta 1 metro e 76, che da due anni è diventata un lavoro ma che impegno lo è da quando aveva 15 anni e ha scelto di trasferirsi a Roma. Un gioco, lo definisce ancora, “che non fai se non ti diverti. Io mi diverto ogni volta che scendo in campo”.

Certo, ora che gioca in A1, le responsabilità sono maggiori, anche se è dura definire l’attività atletica come un lavoro, almeno in Italia: “Non ci sono un fondo pensione o la maternità, quindi bisogna pensare a cosa fare dopo”. Carlotta è iscritta a Scienze della Formazione primaria e passa circa 5 ore al giorno sotto rete. Per lei, le vacanze sono finite il 3 agosto. D’altra parte, il 16 ottobre la stagione ricomincia e serve prepararsi. “Anche se non mi fermo mai: se non gioco faccio palestra altrimenti sarebbe troppo difficile ricominciare”. Carlotta, come fa quasi ogni volta che è in pausa dagli allenamenti, ha trascorso qualche giorno nella sua Montopoli prima di tornare a Novara, dove ha ricevuto il premio Donna Più (leggi qui Carlotta Cambi è Donna più 2016 ).
Carlotta, nessuno è profeta in patria. Tu si.
“Sono stata molto felice di aver ricevuto quel premio. Certi riconoscimenti fanno sempre piacere. Anche perché io torno a casa ogni volta che posso: lì ci sono la mia meravigliosa famiglia, alla quale sono molto legata e anche le mie amiche. Con il tempo, le amicizie cambiano, è normale, ma io ho da sempre 3 amiche che vengono spesso a trovarmi. Con loro il tempo si è fermato”.
Sei partita a 15 anni. Quanto è stata dura?
“Tanto, davvero. Per me e per i miei genitori. Loro sono stati grandi: mi hanno aiutata a riflettere, a fare una scelta consapevole. Non gli piaceva, certo, l’idea che la loro bambina andasse così lontano, però non volevano che rimpiangessi la scelta sbagliata per sempre. Il primo anno, il liceo, le nuove amicizie, l’autonomia che significa libertà ma anche responsabilità… insomma, ho pensato anche di tornare indietro. Ma poi è passata, sono cresciuta e sono rimasta tre anni a Roma. Devo ammetterlo: i primi premi ricevuti e la convocazione in Nazionale mi hanno aiutata. Quando sono arrivate le soddisfazioni, ho capito che quella era la strada giusta, anche se costava un po’ troppa di fatica”.
Quanto ti alleni?
“Ora che sono in preparazione, 2 ore e mezza la mattina e altrettante il pomeriggio. Poi, quando inizia il campionato, un po’ meno. Certo, ci sono delle cose alle quali devi fare attenzione, anche quando sei in vacanza o non ti alleni, perché poi il rendimento si vede. Ma non abbiamo diete o obblighi particolari: un’atleta si conosce e parte del lavoro è anche imparare a darsi delle regole che vanno bene per sé”.
Quando hai capito che la tua passione stava diventando un lavoro?
“Ma, a dirla tutta, faccio ancora fatica a vederlo così. Comunque direi quando sono andata a Piacenza, finita l’esperienza nelle giovanili, quando mi hanno proposto un ingaggio e uno stipendio: quando ti pagano, un brutto allenamento non te lo devi permettere, hai più responsabilità. Se devo allenarmi alle 9, non posso certo andare a ballare fino alle 4”.
E come la metti e l’hai messa con i tuoi coetanei?
“Ci ho dovuto prendere un po’ le misure. Ora va meglio, perché magari anche loro studiano o lavorano, quindi non sono sempre liberi di fare qualsiasi ora. Però tante volte ho dovuto dire no alle uscite in compagnia. Quando ero piccola, invece, facevo fatica a capire quando mi dicevano che dovevano chiedere il permesso o cose del genere. Ho acquisito da piccola la mia indipendenza e anche quando torno a casa, la mia famiglia rispetta questa libertà. Sono cresciuta un po’ più in fretta dei miei coetanei, certo, ma ora mi piace. Anche se, lo ammetto, tornare a casa, trovare pranzo pronto e abiti in ordine, mi fa piacere”.
Una vita da nomade…
“Eh, si, quella dello sportivo è così. Devi essere pronto a cambiare casa, amici, abitudini ogni volta che cambi società. Però questo un atleta lo mette in conto: passare la carriera nella stessa società è impossibile. Ma è anche bello affrontare nuove sfide. Poi ho trovato sempre ambienti belli, con coetanee con le quali confrontarmi, ma anche ragazze più esperte sempre disponibili, compresa Francesca Piccinini, con la quale ho giocato”.
Quanto sei competitiva?
“Un’atleta deve esserlo. Si scende in campo per giocare ma anche per vincere il gioco, specie se ti pagano. Diverso è se gioco con le mie amiche, se giochiamo per divertirci: in quel caso sono più rilassata, quindi sono buona”.
Hai visto le Olimpiadi? Tu ti sei allenata con loro…
“Mi è dispiaciuto molto. Con le ragazze ho fatto il pre olimpico, sapevo che sarebbe stato solo per quel periodo e me lo sono goduto tutto. Spero di arrivarci anche io, un giorno, alle Olimpiadi. Essendomi allenata con loro, so quali difficoltà hanno incontrato e questo rende la sconfitta ancora più terribile. Essere nella squadra che rappresenta l’Italia ai giochi olimpici è già una vittoria, ma quando sei lì, vuoi fare il massimo, vuoi fare il meglio, vuoi vincere. Questo lo dico da atleta. Personalmente, più di tutte, mi spiace per Anna Danesi, che conosco molto bene perché abbiamo giocato insieme a Roma. Sono fiera di lei, ma anche addolorata per lei”.

Elisa Venturi