Voglio fare il sacerdote, la vocazione in diocesi

29 aprile 2016 | 12:57
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Voglio fare il sacerdote, la vocazione in diocesi
Voglio fare il sacerdote, la vocazione in diocesi
Voglio fare il sacerdote, la vocazione in diocesi
Voglio fare il sacerdote, la vocazione in diocesi

Hanno capelli e barba sistemati alla moda, scarpe sportive, felpe con il cappuccio e pantaloni aderenti, dai quali estraggono spesso lo smartphone. Sono 5 e tutti giovani, anche se non giovanissimi. No, non fanno parte di una boyband: sono i futuri sacerdoti della diocesi di San Miniato, impegnati in seminario a Firenze dal lunedì al venerdì, in servizio nelle nostre parrocchie nel fine settimana. Da marzo a ora, la diocesi ha celebrato l’accolitato di Luca Carloni e Massimo Meini, l’ordinazione diaconale di Marco Billeri e la candidatura all’ordine sacro di Federico Cifelli. Proprio con lui, 33 anni il 3 maggio, di Orentano, Il Cuoio in Diretta parla di vocazione e diocesi, anche alla luce di questi momenti di festa per le loro parrocchie e per tutta la comunità, fiera di vantare così tante vocazioni in un momento in cui, sempre di più, si parla di una carenza di consacrati. La diocesi di Firenze, per fare un esempio, di seminaristi ne ha 9.

La provincia favorisce la vocazione?
“In qualche modo, forse sì, perché c’è ancora rapporto umano, scambio intergenerazionale e si fa vita comunitaria. Anche se non più come un tempo: in strada si gioca sempre meno e la parrocchia, così come i partiti o le associazioni sono sempre meno luogo di aggregazione. La crisi di vocazioni non è diversa dalla crisi dei partiti, delle contrade o delle altre forme associative: mancano i giovani, manca il loro impegno. E con vocazione non intendo solo quella al sacerdozio o alla vita consacrata, anche il matrimonio è una vocazione o il servizio agli altri”.
Cosa serve alle nostre parrocchie?
“Intanto spazi grandi, in grado di accogliere, di diventare centri di aggregazione, punti di riferimento per i giovani. In più c’è una generazione da recuperare o se ne perderà anche un’altra: i ragazzi della mia età sono già genitori che allevano i prossimi adulti. Nelle nostre parrocchie servirebbero più percorsi di approfondimento della fede, non solo per i giovani e anche più feste, attività, eventi capaci di far stare insieme in modo sano i ragazzi. Al di là che alla Chiesa, questo farebbe bene alla comunità. Poi serve recuperare le famiglie: la Fede, ma anche ogni altro valore, cresce in famiglia. In casa mia, il pranzo della domenica è sempre stato sacro e il valore della famiglia è cresciuto attorno a quel pranzo, in qualche modo. Anche noi seminaristi dovremmo farci vedere un po’ di più in diocesi: il fatto che il seminario sia a Firenze non aiuta, ma si può pensare sempre a qualcosa”.
Parlando anche con gli altri, cosa “favorisce” la vocazione?
“Tante cose insieme, credo. Ma più di tutto, la cosa che tutti vediamo, è che c’è un sacerdote che è stato determinante. Per me è stato don Giovanni Fiaschi, che ora è a Ponte a Egola: ho sempre apprezzato le sue omelie, serie e chiare. C’è un momento in cui guardi un adulto e pensi che vorresti essere come lui. Non perfetto, perché nessuno lo è, ma che vorresti avere quell’approccio o quello stile o quei risultati. Ecco, a volte capita che quell’adulto è un sacerdote e allora capisci che, magari, la tua strada è quella. Anche l’impegno si impara, serve l’esempio. In un periodo in cui tutto è consumismo, è difficile dire ‘Per sempre’, ma sono fiducioso, perché vedo molte coppie giovani che si sposano e non credo lo facciano con leggerezza”.
Federico, tu come l’hai sentita questa chiamata?
“Sono sempre stato in parrocchia, suonando l’organo e dirigendo il coro. E mi sono sempre impegnato nel volontariato, per esempio con la Pubblica assistenza, fino a farne un lavoro: quando ho perso il mio, ho fatto un corso da Oss e ho iniziato a lavorare nella casa di riposo di Orentano. Penso di aver sentito la chiamata a 14 o 15 anni, ma questa società non favorisce molto l’ascolto: andavo a scuola e poi subito a lavorare, avevo la mia compagnia di amici, la mia autonomia, la libertà di fare tutto quello che mi andava e un sacco di impegni. Poi c’è stato un pellegrinaggio in Terra Santa che mi ha cambiato. Lì, appena ho smesso di correre, in quella terra dove tutto è iniziato, ho sentito qualcosa di forte e, tornato, ho cominciato il mio percorso. L’allora vescovo Tardelli è stato fondamentale: lui ha capito subito cosa stavo provando e ha spinto perché approfondissi. Ho lasciato il lavoro e nel 2012 sono entrato in seminario: non sapevo quanto ci sarei rimasto, ma ero certo che dovevo provare. Grazie a Dio sono ancora qui”.
Tu sei figlio unico, come l’hanno presa in casa questa decisione?
“All’inizio non bene. Mia mamma, che da poco non c’è più, ci ha sempre trascinato in parrocchia, come capita in molte famiglie. Solo che, magari, ha anche avuto il sogno di avere dei nipoti. In più io sono sempre stato un po’ riservato su questa cosa che facevo fatica a gestire, quindi per loro, la mia vocazione, è stata una specie di fulmine a ciel sereno quando avevo quasi 30 anni. Poi mi hanno visto felice come mai prima e hanno capito e condiviso con me quella gioia. In questa società siamo giovani, ma in realtà siamo già adulti fatti. Mettici anche che per la nostra generazione non è facile trovare lavoro e lasciarne uno è un passo impegnativo, specie se non sai quanto durerai”.
Quella in seminario è una vita difficile?
“Lo è per come siamo abituati noi. La sveglia prestissimo, alle 6, le regole, i servizi, lo studio, la preghiera: è molto di più di quanto facciamo in genere, anche quando lavoriamo. Questa società, apparentemente libera, ti porta fuori, ti riempie di impegni, ti distrae e ti fa correre. Credi di avere tutto, finché ti fermi e senti che ti mancano le cose vere magari, quelle che ti fanno stare bene quando sei in silenzio, senza correre. Rientrare in seminario a ottobre, dopo l’estate, sarebbe impossibile senza una convinzione vera e una fede forte”.
Hai rimpianti?
“Forse quello di non essermi buttato prima, di aver provato a silenziare quella voce senza rendermene conto. Però sono anche certo che i tempi del Signore non sono i nostri e quindi, magari, prima non sarei stato pronto, avrei sciupato tutto”.
Cosa ti rende felice?
“Tutto quello che faccio. Il fatto di provare gioia per cose che non sono da me, come quella di alzarmi all’alba. Prima, spesso, ci andavo a dormire all’alba, dopo una serata fuori. E svegliarmi la mattina era dura, anche se sono sempre andato a messa e per quello mi alzavo. Ecco, fare con gioia cose che prima per me erano un sacrificio mi rende felice, perché sento che non sono solo, che sto facendo la volontà del Signore. A volte, però, mi chiedo dove gli altri trovano la felicità, quelli che non santificano la domenica, che vivono sempre la stessa routine, che non si spendono per gli altri, che credono che la vita finisca con la morte”.
Cosa ti fa arrabbiare, invece?
“L’inerzia. Il gusto di conservare le cose come sono solo per paura di cambiare. Il cambiamento fa bene, anche lo spostamento di un prete, per esempio, fa bene al sacerdote e alla comunità, perché lo costringe a fare cose nuove, ad accogliere, a essere accolto. Le sfide fanno crescere, il singolo come la comunità. Io sono convinto che portare la croce insieme sia diverso, perché ti fa sbagliare, ma in modo diverso, con la consapevolezza di non essere solo, di poter contare sugli altri. E’ più facile rialzarsi dopo una caduta, insieme”.

Elisa Venturi