“Una crisi anche ecologica”, ecco cosa dovremo imparare dal coronavirus

“Riscoprire stili di vita il cui benessere può basarsi su un minore consumo di beni e risorse”. Continua la riflessione a puntate di Villa, docente all’università di Pisa
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E’ una crisi anche ecologica quella causata dal nuovo coronavirus. Se è vero che le emissioni di gas serra sono diminuite nei giorni di isolamento nelle zone colpite dal virus, ci sono dei rischi da non sottovalutare e delle opportunità da cogliere al volo. Continua la riflessione di Matteo Villa, docente di sociologia economia all’Università di Pisa. (Per leggere la prima parte clicca qui. )
Una crisi ecologica: ambientale, economica e sociale
Di fronte a questa crisi, il nostro sistema può scoprire l’importanza e la capacità di intraprendere una svolta oppure correre il rischio di approfondire ulteriormente il significato di impoverimento, esclusione e conflittualità sociale.
Perché la svolta possa verificarsi dobbiamo però comprendere di quale crisi si tratta. Non credo sia inopportuno definire quella del coronavirus una crisi ecologica: ricerche recenti mostrano come i rischi di pandemie sono grandemente ampliati dalla devastazione delle foreste, dallo sfruttamento delle residue aree selvagge e dalla distruzione della biodiversità. Inoltre, alcuni primi studi (per esempio vedi qui e qui ) stanno mostrando come il virus possa essere tanto più letale e diffondersi tanto più rapidamente quanto più le aree dove si manifesta sono inquinate e nell’aria sono presenti vaste concentrazioni di particolato atmosferico (PM10 e PM2,5), come nel caso della nostra pianura padana.
Quello che stiamo osservando potrebbe essere solo la punta dell’iceberg e la causa, tanto dell’origine che della diffusione di tali fenomeni, è proprio da ricercare nella crescita continua della estrazione, trasformazione, spreco e sfruttamento delle risorse naturali. Ovvero gli stessi processi determinati dall’uomo che sono alla base della crisi climatica.
Quest’ultima ci appare generalmente molto più distante e in questi momenti è del tutto oscurata dall’attenzione che il nuovo virus ha attirato su di sé. Eppure, i rischi per le nostre società, stili di vita e l’umanità intera sono terribilmente più complessi: per il cambiamento climatico non ci sono vaccini e cure farmacologiche e la possibilità di contenerne picchi di crescita richiede ben altri sforzi che non una sospensione di alcune settimane. Il problema è non solo quantitativo (cosa facciamo di meno e cosa di più, quanto spendiamo e quanto risparmiamo), ma soprattutto qualitativo: come diversamente organizziamo la nostra vita sul pianeta e nelle nostre comunità.
Il cambiamento climatico e gli altri non meno gravi fattori della crisi ecologica (leggi qui), provocano nuovi tipi di rischi sociali e approfondiscono le contraddizioni del nostro sistema, creando le basi per una tripla crisi di sostenibilità: sociale, economica e ambientale. Rischi sociali e ambientali e le politiche per contrastarli sono tra loro interconnessi: nel breve periodo il cambiamento climatico aggrava i rischi sociali esistenti come salute, povertà, disuguaglianza e sicurezza, soprattutto nei territori più esposti a eventi distruttivi e a rischi di impoverimento dei suoli e delle risorse naturali. Allo stesso tempo, le politiche di riduzione delle emissioni di gas serra, come le tasse sui carburanti e le misure di conversione energetica e produttiva, sulle abitazioni e sui trasporti, possono colpire in modo sproporzionato i gruppi sociali svantaggiati, come il caso dei cosiddetti Gilet Gialli in Francia nel 2018 ha messo in luce. Nel lungo periodo, soprattutto in caso di insufficienti politiche ambientali e di prevenzione, il cambiamento climatico facilmente diverrà il principale motore dei rischi sociali, per esempio attraverso il depauperamento e la distruzione delle risorse da cui dipende un numero crescente di comunità e paesi (cibo, energia, infrastrutture), nonché del sistema industriale, occupazionale e fiscale-assicurativo attraverso cui sosteniamo la nostra economia e finanziamo il welfare (pensioni, sanità, disoccupazione, assistenza, ecc.).
Ma la combinazione di cambiamenti e politiche climatiche comporta implicazioni ancora più complesse e imprevedibili (Heat, Greed and Human Need: Climate Change, Capitalism and Sustainable Wellbeing, Ian Gough). Per esempio, vi sono le conseguenze già parzialmente visibili prodotte dalle “migrazioni climatiche” da aree a rischio nei Paesi in via di sviluppo, ma anche da aree interne ai nostri Paesi soggette a esaurimento di risorse, rischi per la salute e riduzione delle opportunità occupazionali, a causa dello spostamento/chiusura/riconversione di impianti e produzioni. Inoltre, ci sono i costi e le implicazioni finanziarie delle politiche di mitigazione e adattamento a nuove condizioni climatiche che creeranno una dura competizione fiscale tra esigenze socio-economiche e ambientali, tanto più se le une e le altre non verranno coordinate.
Infine ci sono le implicazioni sociali delle necessarie politiche di transizione verso una economia a zero emissioni, come, per esempio i già citati potenziali effetti regressivi delle misure fiscali per ridurre le emissioni di gas serra; i potenziali effetti di disoccupazione, sottoccupazione e più difficile incontro tra domanda e offerta di lavoro conseguenti alla trasformazione tecnologica e produttiva; i potenziali effetti sociali dei programmi di riconversione degli spazi urbani, del trasporto e della mobilità, degli stili di consumo, ma anche dell’accesso alle strutture e ai servizi pubblici e sociali.
Qualche possibile apprendimento
Se, almeno per alcune settimane (o mesi?), il coronavirus sta stravolgendo il nostro stile di vita, la sua insorgenza e la più generale crisi ecologica in cui si manifesta mettono in luce che proprio quello stile è del tutto insostenibile e sarebbe bene non aspettare le emergenze per reagire. Ci sono importanti apprendimenti che possiamo raccogliere da quanto sta avvenendo.
In primo luogo, ci sono alcuni valori che dovremmo poter riconoscere non solo quando vengono minacciati: la salute pubblica, la socialità, l’affettività, la vicinanza e la cura tra le persone, le manifestazioni ed espressioni culturali, il rapporto con la natura, sono alcuni degli aspetti di cui ora più avvertiamo la mancanza. Ma quanto sono solitamente considerati nelle nostre aspettative, nell’organizzazione della vita urbana, nelle politiche e nelle valutazioni sull’andamento di un Paese?
In secondo luogo, come detto, crisi come queste coinvolgono tutti ma non sono mai uguali per tutti e perché questo accada di meno, occorre combattere le diseguaglianze nella ordinarietà e non straordinarietà delle condizioni. Forse non dovremmo attendere tali eventi per accorgerci che, almeno certe volte, siamo “tutti sulla stessa barca”.
In terzo luogo, di fronte a minacce straordinarie è possibile fare qualcosa di straordinario. Perché di fronte alla gravità della crisi ecologica non siamo ancora stati in grado di prendere misure adeguate e provare a tirare il freno di un sistema destinato alla sua autodistruzione? I dati di queste settimane mostrano un notevole calo delle emissioni di gas serra tanto in Cina quanto nelle aree più inquinate dei nostri Paesi. Da una parte questo ci preoccupa perché è l’indicatore di quell’arresto improvviso e poco desiderato. Dall’altro dovrebbe interrogarci sul perché non si sia potuto o voluto adottare prima in modo diffuso alcune misure come il cosiddetto smart work o la riduzione di spostamenti non necessari e inquinanti. E ancora dovrebbe farci riflettere su quanto la riscoperta dei valori citati possa aiutarci a identificare stili di vita il cui benessere può basarsi su un minore consumo di beni e risorse naturali.
Continua…