“La crisi non è mai uguale per tutti”: economia, famiglia e società dopo il coronavirus. Ecco cosa ci aspetta



“Abbiamo tirato il freno a mano” e poi dovremo ripartire. La riflessione a puntate di Villa, docente all’università di Pisa
Prima c’è l’emergenza sanitaria. Ma poi c’è anche quella economica. Una crisi, questa, che porterà a cambiamenti sotto diversi aspetti, dopo la quale non saremo più come prima. Come saremo dopo il coronavirus, lo abbiamo chiesto a Matteo Villa, docente di sociologia dei processi economici e del lavoro, di sistemi di welfare comparati, sociologia economica e sociologa dell’organizzazione all’Università di Pisa.
Ce lo ha spiegato in una lunga riflessione, che inizia oggi e prosegue nei prossimi giorni.
Primavera silenziosa
“Primavera silenziosa” è il titolo di un libro scritto da Rachel Carson e pubblicato nel settembre del 1962. Secondo la voce su Wikipedia – che segnala come nel 2006, il libro è stato riconosciuto come uno dei 25 più grandi testi scientifici di tutti i tempi dai redattori della rivista Discover e che, nonostante la forte opposizione delle aziende chimiche e grazie all’opinione pubblica, ha prodotto numerosi cambiamenti nella politica nazionale statunitense sui pesticidi, il divieto del Ddt per usi agricoli e la creazione dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente – è ritenuto una sorta di manifesto antesignano del movimento ambientalista, il cui titolo, in due sole parole, richiama l’attenzione al maggior silenzio dei campi primaverili rispetto ai decenni precedenti. La causa era la diminuzione del numero di uccelli canori provocato dall’utilizzo massiccio di insetticidi, analizzato nel testo attraverso puntuali ricerche scientifiche.
Oggi sono i primi giorni di un’altra primavera silenziosa, non per la diminuzione (ulteriore) degli uccelli canori, che paiono invece più allegri del solito, ma per la drastica riduzione di esseri umani nelle strade, come nei campi, nei luoghi di lavoro o in luoghi pubblici che sono stati chiusi al loro accesso. Il motivo non sono i pesticidi, ma i rischi di un contagio virale che forse ha più di un semplice legame con il messaggio del libro della Carson.
L’insorgenza del coronavirus e la sua trasformazione in una pandemia globale costituisce una crisi sanitaria senza precedenti negli ultimi cento anni e rappresenta innanzitutto una tragedia per le persone, le famiglie e i lavoratori più direttamente coinvolti. Lo sviluppo della pandemia appare ancora incerta e ancora non chiara l’efficacia delle misure prese dai governi nazionali e regionali dei Paesi coinvolti, seppure proprio alcuni primi studi, come quello dell’Imperial College di Londra, hanno spinto anche i ritardatari ad agire con decisione. Naturalmente, il contenimento del contagio, la tutela della salute e la protezione delle persone più fragili è o dovrebbe essere l’obiettivo primario delle misure urgenti attuate. Tuttavia, quando riflettiamo attentamente intorno a questo punto, possiamo immediatamente cogliere il fatto che la fragilità non riguarda una dimensione esclusivamente sanitaria. Il covid 19 sta infatti mettendo a nudo alcune fragilità del nostro modello di sviluppo al punto che, parlare di una crisi di sistema anche economica, sociale e ambientale, non è una esagerazione.
Uno stravolgimento e qualche riscoperta.
Tutti stiamo sperimentando qualcosa di inimmaginabile anche solo poche settimane fa: la sospensione di alcune libertà più comuni e la profonda trasformazione della vita sociale e lavorativa. Un brutale cambiamento di abitudini e comportamenti scontati. Tutti siamo preoccupati delle conseguenze che verranno a un sistema economico a cui è stata imposta la chiusura o il rallentamento di molti servizi, di gran parte delle attività commerciali e, più indirettamente, di quelle produttive. Le misure prese dai governi, non a caso, mescolano provvedimenti a protezione della salute, a sostegno di sistemi sanitari messi a dura prova (e in parte messi a nudo nei loro limiti di capacità e carenza di risorse), ma anche a sostegno dei lavoratori, delle famiglie e delle imprese. Le famiglie sono messe in gioco nella propria capacità di tenuta in un nuovo esercizio di conciliazione tra lavoro a casa (per chi è possibile), lavoro in azienda (per chi vi è costretto), rischi di perdita del lavoro, da un lato e cura dei figli in assenza dei sospesi servizi scolastici e educativi, dall’altro. E le imprese, soprattutto in alcuni settori, sono soggette ai pesanti effetti di una società che ha improvvisamente “tirato il freno a mano”, con conseguenze ancora non semplici da calcolare a livello aggregato.
Siamo di fatto in una crisi economica: alcuni soggetti già la vivono sulla propria pelle mentre i governi la segnalano attraverso vari tentativi di contenimento degli effetti peggiori. I cosiddetti mercati stanno suonando tutti i campanelli d’allarme e gli osservatori iniziano a diffondere alcune previsioni, come quella della Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) che stima una possibile perdita di 25 milioni di posti di lavoro a livello globale.
Ma fare un ragionamento meramente quantitativo dei rischi, delle perdite, della spesa e degli investimenti necessari per far fronte alla crisi, ottunde la possibilità di comprenderne i molteplici significati. Ci sono differenze e segnali importanti che dobbiamo poter cogliere se vogliamo imparare qualcosa. Sono passati poco più di 10 anni dalla crisi finanziaria e poi economica del 2007/08 e il modo in cui la medesima è stata affrontata rivela quanto poco abbiamo appreso: se è vero che i fattori che l’hanno determinata sono ancora tutti lì, e la tendenza del sistema a produrre disequilibri, diseguaglianze e pericolosi meccanismi di accumulazione e moltiplicazione della ricchezza non ha subito flessioni. Possiamo imparare qualcosa adesso?
In primo luogo, possiamo accorgerci che una crisi non è mai uguale per tutti: le persone hanno occupazioni diverse e alcuni, soprattutto autonomi e precari, rischiano di perdere sia lavoro che reddito, creando le condizioni per l’insorgenza di ulteriori problemi sociali e di salute a cui il welfare sarà chiamato a rispondere. Altri rischiano la salute lavorando: medici e infermieri e tutti coloro che, non dotati delle necessarie protezioni, sono costretti sui mezzi di trasporto e nei reparti, a condividere spazi ristretti con altre persone. Alcune famiglie hanno figli piccoli o adolescenti e case inadeguate, e magari vivono in contesti poco salubri e dove la qualità della vita non è affatto delle migliori. In famiglie in difficoltà, la forzata convivenza H24 può esasperare relazioni già difficili e aumentare i rischi di violenza, soprattutto sulle donne. Poi ci sono persone che una casa non ce l’hanno e sono messe in condizioni paradossali, tra obbligo a stare in un luogo che non c’è e chiusura o ridotto accesso ai servizi di accoglienza, siano esse senza dimora o migranti richiedenti asilo o altri ancora. Infine, ma l’elenco è certamente incompleto, ci sono persone in carcere o negli istituti di cura che sono private delle relazioni sociali essenziali alla tenuta di una almeno minima qualità e dignità della vita. Quando si dice “tutti a casa” dobbiamo considerare la profonda condizione di diseguaglianza in cui tale necessario richiamo si riverbera.
In secondo luogo, possiamo riaccorgerci di quanto sia importante avere uno Stato, un governo e delle istituzioni che fanno l’interesse pubblico e sono capaci di prendere decisioni, intervenire e agire in modo coordinato; e quanto sarebbe preoccupante se non fossero in grado di farlo. Ci sorprendiamo ad applaudire fuori dalle finestre medici e infermieri in prima linea, ma siamo anche costretti ad accorgerci che il sistema non è del tutto pronto e adeguato, e non solo perché qualcosa è accaduto a un nostro caro, ma perché c’è un problema che riguarda tutti quanti. E ancora, ci troviamo tutti d’accordo sugli interventi a sostegno dei lavoratori, del loro reddito e delle imprese per cui lavorano, dopo le polemiche e lo sterile dibattito sul Reddito di Inclusione prima e di Cittadinanza poi, in cui pareva che l’unico problema fossero i presunti comportamenti opportunisti dei cittadini (che le ricerche dimostrano essere estremamente minoritari e per lo più provocati dalle inadeguatezze del sistema). E infine ringraziamo che un sistema di welfare, per quanto ricco di problemi, difficoltà e necessità di trasformazione, ancora esiste. Non solo: tiriamo un sospiro di sollievo perché l’Unione Europea si è finalmente mostrata capace di cambiare idea sul ruolo della spesa pubblica, sul sostegno ai Paesi in difficoltà e sul loro ruolo nel sostenere la società; dismettendo, almeno per un momento, quella sorta di “economia morale del mercato e della concorrenza ad ogni costo”.
Ma lo stato può essere solo l’inserviente che ripara i danni quando la festa è andata male?
Continua…