
Alla griglia o alla fiorentina, alla tartara o come carpaccio, allo spiedo o in salsa, stufata, brasata, stracotta, ai ferri o con gin e peperoncino, la carne di manzo continua a mantenere il primato nel numero dei modi di preparazione. Secondo il Buonassisi centocinquanta circa, per limitarsi solo ai principali: una bella testimonianza di fantasia italica e delle straordinarie possibilità di manipolazione delle carni bovine.
Peccato, però, che da quarant’anni a questa parte i cittadini del bel paese, liberatisi finalmente dall’assillo della fame, abbiano assunto abitudini alimentari costose e distorte, consumando prevalentemente bistecche e filetto, dimenticando altri tagli di carne almeno altrettanto gustosi e nutrienti. Status symbol e risarcimento dopo secoli di fame, ma forse anche esigenza di una cucina veloce legata ai ritmi affannosi della vita quotidiana, il ricorso eccessivo ai soli filetto e bistecca rischia di depauperare un patrimonio gastronomico elaborato nel corso di generazioni e caratterizzato dall’ottenere il massimo – di piacere, di sazietà, di apporti energetici – con il minimo.
Un tempo poveri, gli italiani a tavola, anche per le carni bovine, sapevano esercitare fantasia e creatività; oggi, divenuti cittadini della società affluente, mortificano il proprio gusto con una cucina veloce fino alla sciatteria, con una impazienza che non si imparenta mai con la gioia del palato.
Certo, la fatica e l’intelligenza degli allevatori meriterebbero una maggiore attenzione e una minore pigrizia nel valorizzare non solo le ottime polpe che provengono dai lombi, dalle natiche, dalle cosce dei bovini, ma anche le parti di cosiddetta seconda (spalla e costole) e terza categoria (collo, testa, addome, parte inferiore degli arti); forse addirittura più appetitose, ad alto contenuto energetico, igienicamente garantite e assolutamente digeribili.
Sì, digeribili. Infatti, nonostante quanto affermato dai mentori delle recenti mode vegetariane, la carne bovina appare leggera e assimilabile, composta per i due terzi d’acqua, ricca di sodio, di calcio, di magnesio, di ferro, di potassio, di fosforo e solo per l’1,5 per cento di grassi, proponendosi quindi come cibo adatto a tutti senza particolari controindicazioni.
All’origine di questo alimento, tanta parte della dieta dell’uomo moderno, stanno animali che si collocano tra storia e leggenda: il mitico uro, originario della Lituania di cui parla anche Cesare nel suo De bello gallico; il bisonte o bue muschiato dell’America settentrionale (quello reso famoso dai film western, sterminato da Buffalo Bill o da tipacci pari suo e adorato come una divinità dai pellerossa o dai bianchi dalla parte degli indiani come Balla coi lupi) una volta diffuso dal Canada alla Louisiana, oggi protetto nelle riserve; lo yak o bue grugnente della Mongolia, lo zebù dell’India e dell’Africa, il bufalo che viveva tanto nelle pianure ungheresi quanto nella Maremma e nelle Paludi pontine, poco docile e pericoloso allo stato brado, sobrio ed utile come animale da soma e da sella una volta addomesticato; e poi il bos taurus o bue domestico, il “pio bove” carducciano, a pelo nero, rosso, fromentino più o meno carico o pezzato di bianco, nero o rosso. Oggi, i bovini sono specializzati secondo il fine che gli allevatori vogliono ottenere: così importanti per le carni sono la razza di collina del Pinerolese e dell’Astigiano, i bovini modenesi, i reggini, i chianini, i maremmani, i romani dalle lunghe corna, ecc. che collocano il nostro paese ai primi posti per l’allevamento insieme alla Gran Bretagna, al Messico, all’Australia, alla Francia, alla Germania, agli Stati Uniti. Secondi a nessuno, proprio da questi paesi continuiamo ad importare tagli pregiati con grande sofferenza della nostra bilancia dei pagamenti. E questo anche quando potremmo contare su eccellenze assolute, reperibili a pochi chilometri da casa. Stiamo parlando del mucco pisano, una razza locale di bovini salvata dall’estinzione grazie a un programma regionale introdotto alla fine degli anni novanta del secolo scorso. Risultato di incroci tra bestiame locale con chianina, olandese e razze Durham originario della zona costiera della provincia di Pisa (San Rossore, Tombolo e Migliarino), il mucco pisano conobbe una certa popolarità alla fine del XVIII secolo nell’area compresa tra Livorno, le Apuane e la Toscana interna fino a Montecatini Terme, San Miniato, Fucecchio, Capannoli. Apprezzato per la sua spiccata attitudine al lavoro nei campi, ma anche per l’abbondante produzione di latte e soprattutto per la qualità della carne, il mucco contava all’inizio del secolo scorso non meno di ventimila capi di bestiame scesi a poche decine nel giro di 50/60 anni. Oggi, grazie a una mirata e qualificata azione di conservazione e protezione sono alcune centinaia i capi allevati in particolare per una carne bovina di alta qualità che è particolarmente gustosa e che sta conoscendo un sempre maggior favore da parte dei consumatori. Insomma, anche a proposito della carne vanno recuperate antiche abilità, lontane competenze, pazienza e passione. Altrimenti ci meriteremo tutti i fast food che già ci capitano e la nostra vita sarà allora un po’ più monotona e un po’ meno saporita.
Luciano Luciani