Discriminata e licenziata per un tatuaggio: dopo 4 anni di guerra legale riottiene il posto

Aveva vinto il concorso per agente di polizia penitenziaria ma era poi stata sollevata dall’incarico con giudizio di una commissione medica
Discriminata per un tatuaggio ottiene giustizia dopo 4 anni. E’ la rocambolesca vicenda giudiziaria di una giovane donna residente in una provincia toscana che nel febbraio del 2018 aveva partecipato al bando del ministero della Giustizia per il reclutamento, a seguito di un corso, di ben 1220 allievi agenti (per donne e uomini) del corpo di polizia penitenziaria.
La donna dopo aver superato le prove di concorso, tuttavia, è stata dichiarata inidonea alla prosecuzione della procedura in sede di visita medica per l’accertamento dell’idoneità psico-attitudinale, con una motivazione che l’ha lasciata sbalordita: “tatuaggio in zona non coperta dall’uniforme”. Un giudizio definitivamente confermato dalla commissione medica di seconda istanza nel dicembre 2018. A quel punto inizia un iter giudiziario (che in ogni sede e grado ordina, per ovvi motivi che rispettiamo, la omissione di qualunque dato sensibile possa ricondurre alla sua identità) che tra alterne vicende è terminato poi con una sentenza nel merito favorevole alla donna da parte del Consiglio di Stato che ha annullato il provvedimento di esclusione, alla fine, ma non è stato un percorso semplice.
La donna infatti ottiene subito dal Tar del Lazio, in sede cautelare, la sospensione del provvedimento di esclusione, ottenendo l’acceso alla frequenza del 177esimo corso di formazione ministeriale, conseguendo la nomina ad allievo agente nel settembre del 2019 e, successivamente, nel maggio del 2020, era stata quindi assegnata a una casa circondariale femminile della Toscana, con la qualifica di agente. Ma il Consiglio di Stato, sempre in sede cautelare, accoglie l’appello ministeriale e la donna viene esclusa dall’assunzione e viene dimessa dal servizio con effetto immediato.
Nel 2021, dopo mesi di inattività lavorativa della donna, i giudici di Palazzo Spada, questa volta nel merito della controversia, accolgono definitivamente le istanze della donna e conseguentemente il direttore generale del personale e delle risorse del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ministeriale provvedeva pertanto a disporre la reintegrazione in servizio della ricorrente, “con decorrenza giuridica dalla data del presente provvedimento ed economica dalla data di presentazione in servizio”.
La donna quindi riesce a venir fuori dalla incredibile situazione in cui si era venuta a trovare per via di un tatuaggio e riprende a lavorare in un altro carcere femminile della regione. Ma a quel punto, dopo aver ottenuto giustizia contro un provvedimento che riteneva discriminatorio, si accorge che c’è “un buco” nella sua carriera e chiede al Tar della Toscana che venga appunto ricostruita dall’inizio della vicenda e con relative elargizioni economiche. I giudici del Tar di Firenze hanno accolto la parte del suo ricorso relativo alla carriera ma per quanto riguarda la parte economica del periodo in cui è stata sospesa illegittimamente dovrà, su indicazione dei giudici, proporre una nuova causa di risarcimento danni, non essendo possibile ottenere in maniera automatica i soldi relativi al periodo in cui non ha potuto lavorare. Si legge infatti chiaramente, al riguardo, nella sentenza del Tar di Firenze pubblicata nei giorni scorsi: “Questa parte della pretesa della ricorrente non può pertanto trovare accoglimento, risultando del tutto corretta la prospettazione dell’Amministrazione tendente ad escludere dalla piena ricostruzione della carriera della ricorrente ai fini economici il periodo non lavorato e con riferimento al quale non può essere riconosciuta l’esistenza del rapporto sinallagmatico; rimane ovviamente salva la possibilità, per la ricorrente, di richiedere eventualmente le retribuzioni relative al periodo non lavorato a titolo di danno, attraverso la proposizione dell’azione risarcitoria non proposta in questa sede”.
L’incredibile vicenda umana e giudiziaria, dunque, si è quasi conclusa e positivamente per la donna che è riuscita a portare avanti e vincere una battaglia legale contro quello che appariva una discriminazione vera e propria perché il tatuaggio non era lesivo nei confronti di niente e di nessuno, non trattandosi di simboli o frasi equivoche, ma di un mero disegno decorativo. Tutto è bene quel che finisce bene.