Il fatto |
Cronaca
/

Cerca di “soffiare” i clienti alla banca dove lavorava: arriva lo stop dei giudici

11 agosto 2021 | 14:27
Share0
Cerca di “soffiare” i clienti alla banca dove lavorava: arriva lo stop dei giudici

Una agente con un budget da 62 milioni “fermata” dal tribunale: “Ha violato gli accordi con l’istituto”

Stava “convincendo” i clienti a seguirla nella nuova banca dove lavora violando un accordo. Una consulente finanziaria è stata condannata dal tribunale di Roma, competente per giurisdizione, ad interrompere le sue attività per il periodo previsto da una clausola contrattuale e nelle zone dove operava.

L’abile private banking solo per l’istituto di credito per cui lavorava al 2019 aveva un portafoglio clienti di ben 62 milioni di euro nelle sole zone di Lucca, Pisa e Livorno. Una dote di non poco conto anche in un settore di elite e in zone benestanti. Per i giudici avrebbe violato gli accordi di non concorrenza siglati all’inizio del suo rapporto lavorativo con la banca che le aveva dato i tre capoluoghi toscani come raggio di azione per proporre investimenti a clienti che possono permettersi disponibilità da 250mila euro a salire.

I clienti dei Private Banker sono  infatti  persone con disponibilità finanziaria non inferiore ai 250.000 mila euro. Una persona che prima di fare qualsiasi scelta ha bisogno di consigli precisi e ben ponderati, in modo da tutelare il proprio patrimonio nel tempo e su tutti i fronti, aziendali, famigliari e personali. La donna avrebbe cercato di portare con sé verso la nuova banca i suoi clienti nel 2019 quando diede le dimissioni. Ma per i giudici la donna e la banca nel 2016, anno di inizio attività, hanno sottoscritto un patto di non concorrenza, decorrente dallo stesso giorno, che deve ritenersi pienamente legittimo dacché rispettoso di tutti i parametri di legge, essendo stato stipulato in forma scritta, risultando contenuto entro limiti definiti e certi di oggetto, di tempo e di luogo, e prevedendo un corrispettivo annuale per la lavoratrice.

Violando questo “patto” la donna, secondo i giudici, ha commesso un illecito civile da cui la condanna “ad astenersi dallo svolgimento e dalla prosecuzione dell’attività concorrenziale illegittima, di cessare di svolgere – personalmente o per interposta persona – qualsiasi attività di gestione di portafogli finanziari della clientela, anche istituzionale, di intermediazione finanziaria o comunque in senso lato in concorrenza con la banca ed in ogni caso di contattare o comunque intrattenere rapporti professionali con la clientela della banca nei limiti territoriali previsti dal patto di non concorrenza del 2016 e sino alla sua naturale scadenza”. La donna dopo soli tre anni di lavoro svolto per la prima banca era riuscita a “raccogliere” 62 milioni di euro per investimenti e l’anno successivo alle sue dimissioni nel 2019 aveva convinto già alcuni clienti a “passare” con lei alla nuova banca presso cui lavora erodendo dal precedente portafoglio clienti quasi 8 milioni di euro in pochi mesi. A quel punto l’istituto di credito l’ha trascinata in tribunale per cercare di fermarla costringendola ad ottemperare all’accordo siglato. “Integra il pericolo di pregiudizio altresì la necessità di evitare ulteriori trasferimenti patrimoniali, stante la celerità con la quale sono avvenute le prime dismissioni che rende verosimile, nelle more del giudizio ordinario, il crescente aumento del numero di clienti sviati verso la concorrenza, con ragionevole conseguente aggravamento del pregiudizio di natura economica e di immagine (nei riguardi della clientela e del mercato di riferimento in generale) per la Banca ricorrente, anche tenuto conto del cospicuo portafoglio clienti che la donna aveva in essere con la stessa”.

La donna è stata quindi “bloccata” dai giudici del tribunale capitolino e fino alla scadenza dell’accordo non potrà svolgere le stesse mansioni nelle stesse zone per conto di altre banche ma può svolgere altre mansioni bancarie anche negli stessi territori sempre dietro un corrispettivo già in essere. “E’ legittimo il patto che comporta la delimitazione del divieto al solo settore del  private banking, al medesimo genere di prodotti precedentemente trattati con la stessa clientela, ad una sola Regione, ad un periodo di tre anni successivi alla cessazione del rapporto e l’erogazione di un adeguato compenso”. La consulente è stata condannata anche al pagamento delle spese processuali.