10 febbraio |
Altre News
/

“Abbiamo lasciato tutto per essere italiani” ma “parlavamo una lingua diversa” e “non avevamo neppure una padella”

10 febbraio 2023 | 11:33
Share0
“Abbiamo lasciato tutto per essere italiani” ma “parlavamo una lingua diversa” e “non avevamo neppure una padella”

L’esodo e quella notte d’inverno con la neve raccontati da Clelia, arrivata bambina a Migliarino e oggi presidente dell’associazione Venezia Giulia e Dalmazia

“Facciamo fatica a parlarne dopo tutti questi anni. La nostra tragedia è stata chiusa non in un cassetto, ma in un armadio murato e chi ne ha fatto le spese siamo noi. Abbiamo ripagato i danni di guerra con i nostri beni e le nostre case e nessun risarcimento ci è stato riconosciuto. Noi siamo stati zitti, ma abbiamo pagato le conseguenze della guerra più degli altri italiani”. La riflessione in occasione del giorno del Ricordo, oggi, 10 febbraio è di Clelia Kolman, esule istriana e presidente dell’associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, comitato di Pisa. La sua è una delle tante storie vissute da centinaia di migliaia di esuli, che per troppo tempo sono rimaste sconosciute.

Siamo nella primavera del 1945. L’Istria viene liberata dall’occupazione tedesca e dalle forze della Repubblica sociale italiana. La regione a nord est dello Stivale viene occupata dalle truppe Jugoslave, guidate da Tito, capo della Resistenza prima e presidente della federazione poi.

“Abbiamo perso una guerra – continua Kolman -, iniziamo da qui. Il dittatore Tito subito dopo la guerra ha preso le nostre terre e le ha trattate come cose sue: ha nazionalizzato le case e ha tolto il lavoro agli italiani. Noi dovevamo parlare un’altra lingua, non potevamo professare la nostra religione e niente proprietà privata: tutto era dello Stato. Per lui tutto quello che era italiano doveva scomparire.

Io e la mia famiglia vivevamo a Fiume. Per un periodo tutti dovevamo decidere se rimanere o andar via. Rimanere voleva dire accettare tutte le imposizioni e le privazioni della dittatura. Chi ha deciso di rimanere lo ha fatto o per malattia e non si poteva muovere o perché aveva casa e campagna che non voleva lasciare o perché non si sentiva di affrontare un salto nel vuoto come quello che abbiamo fatto noi”.

Così voi avete deciso di partire. Com’è stato il viaggio?

Non semplice. Lasciavamo casa, affetti, cultura, proprietà: lasciavamo un’eredità di centinaia di anni. Abbiamo lasciato tutto per essere italiani in Italia, perché ci sentivamo italiani. Ma c’erano delle condizioni da rispettare: dovevamo passare da una serie di verifiche, non potevamo portare soldi, solo una valigia.
Da profughi non avevamo niente. Dei 350mila esuli alcuni sono venuti in Italia, altri sono andati in altri Paesi. Siamo stati smistati in 115 campi senza che noi sapessimo dove saremmo andati: la destinazione ci era ignota, è stata una pulizia etnica. Io ho fatto da Fiume a Udine e poi da Udine si veniva smistati dove capitava. A noi è capitato Migliarino, a Pisa, dove siamo rimasti sette anni. Poi siamo stati trasferiti a Calambrone e solo dopo qualche anno ci è stata assegnata una casa. Ma con la mia famiglia non siamo mai più stati insieme: siamo stati mandati tutti in regioni diverse. Durante il viaggio in treno non avevamo acqua né latte per i bambini. Mi ricordo che quando ci siamo fermati a Bologna siamo stati cacciati perché non volevano che ci fermassimo. La notte siamo arrivati a Migliarino: era buio, c’era la neve e non sapevamo dove fosse il campo profughi. Dopo un po’ di sforzi per capire dove dovevamo andare siamo arrivati al campo, che era stato prima un campo di atterraggio per l’aviazione militare e poi un campo di prigionia americana.

Com’era la vita nel campo profughi?

Siamo stati buttati lì senza nessun aiuto. C’erano baracche fatte con pagliericcio da cui entravano pioggia e vento. Non c’erano servizi e, soprattutto, non avevamo più niente, nemmeno una padella per cucinare. Solo con il tempo la Prefettura ha messo a disposizione una mensa e piano piano noi ci siamo costruiti il campo, ognuno per quel che sapeva fare.
Nei campi profughi eravamo una grande comunità: ognuno aiutava l’altro. C’era il problema del lavoro: ognuno doveva trovare qualcosa per vivere. Qui a Pisa in quel momento erano tutti contadini. Noi invece quello lo sapevamo fare poco: spesso venivamo da un contesto cittadino e non di campagna, eravamo specializzati, c’erano meccanici e ciabattini per esempio, ma ci siamo rimboccati le maniche e ci siamo aiutati a vicenda. I pisani non ci guardavano neanche, dicevano che parlavamo una lingua diversa (il dialetto), non volevano avere a che fare con noi. C’erano insomma delle differenze culturali dovute al contesto. Per esempio, da noi le donne già lavoravano in fabbrica, qui ancora no. Nella loro ottica noi venivamo in Toscana a rubare il lavoro.

Cosa sapevate delle foibe?

Le foibe per noi erano cose normali. Sapevamo che nelle campagne c’erano questi buchi, ma si usavano come buca da rifiuti. La zona carsica è tutta così: è vuota sotto. Ma nessuno aveva mai pensato a usare questa conformazione del territorio per l’uso che ne ha fatto Tito. E nessuno mai pensava che fossero così profonde. Finché Tito era in vita le ricerche e le verifiche non sono state possibili, dopo la sua morte c’è stato un cambio di approccio. C’è stata una mappatura che ha consentito una stima delle vittime, ma dopo tutto questo tempo è difficile accertare cosa sia successo: l’acqua ha continuato a erodere nel frattempo e ha trasportato corpi e ossa.

Cosa rimane oggi?

Sicuramente oggi riscontriamo una maggiore disposizione all’ascolto anche da parte di chi in passato ha ignorato un pezzo di storia del nostro Paese. Resta comunque una scarsa conoscenza del tema e una enorme difficoltà a parlarne: i testimoni dopo tutto questo tempo fanno fatica a rispolverare le loro sofferenze che hanno cercato di elaborare per una vita intera. Una nota positiva è la collaborazione con le scuole. Facciamo incontri con i ragazzi di terza media e delle scuole superiori e dobbiamo riscontrare il fatto che, quanto prima del nostro incontro c’è uno studio in classe, una spiegazione, i ragazzi li troviamo più preparati anche all’ascolto. Quando questa preparazione manca, gli studenti rimangono un po’ di stucco.

Foto Regione Friuli Venezia Giulia