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La colazione in reparto per ringraziare i suoi angeli, Oliveri racconta l’odissea con il coronavirus

21 marzo 2021 | 19:35
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La colazione in reparto per ringraziare i suoi angeli, Oliveri racconta l’odissea con il coronavirus
La colazione in reparto per ringraziare i suoi angeli, Oliveri racconta l’odissea con il coronavirus
La colazione in reparto per ringraziare i suoi angeli, Oliveri racconta l’odissea con il coronavirus
La colazione in reparto per ringraziare i suoi angeli, Oliveri racconta l’odissea con il coronavirus
La colazione in reparto per ringraziare i suoi angeli, Oliveri racconta l’odissea con il coronavirus
La colazione in reparto per ringraziare i suoi angeli, Oliveri racconta l’odissea con il coronavirus

Il consigliere comunale di S anta Croce racconta i giorni del ricovero fra paure e speranze: “Ho creduto di non rivedere più i miei”

È la testimonianza di un’odissea quella che Vincenzo Oliveri affida alle righe che seguono. La testimonianza di 34 giorni di lotta contro il covid. Trentaquattro giorni di ospedale, fra i pensieri, la paure e le sensazioni di chi ha sfiorato il peggio. Ma anche il ricordo e l’affetto per tutto il personale medico e sanitario che ha accompagnato il consigliere comunale di Santa Croce verso la guarigione, fino al ritorno a casa, all’abbraccio conclusivo dei familiari e all’alba di quella che Oliveri considera “una seconda vita”. Una testimonianza raccontata attraverso gli appunti del suo diario, trascritto pazientemente in ogni giorni di ospedale. Un racconto fatto di fotogrammi ma soprattutto di persone: i medici, gli infermieri e gli oss del reparto covid dell’ospedale San Giuseppe di Empoli, al quale Oliveri ha deciso di regalare per cinque giorni la colazione, prenotando da domani e per tutta la settimana una bel vassoio di paste da consegnare in ospedale ogni mattina. Racconto che di seguito pubblichiamo integralmente:

È iniziato tutto il 1 febbraio con un po’ di tosse secca, mentre mia moglie aveva la febbre. “Sarà mica il covid?” ci diciamo. Così chiamiamo la dottoressa per prenotare subito un tampone. Appuntamento per mercoledì 3 febbraio vicino all’ospedale a Empoli.  Dopo 2 giorni arriva la risposta: esito positivo per entrambi. Così la dottoressa ci prescrive dei farmaci ma senza che la situazione migliori: la tosse continua giorno e notte e mia moglie ha ancora con la febbre. Mia figlia, preoccupata, decide di chiamare il 118 per farci visitare a casa da un medico. È il primo pomeriggio del 10 febbraio: dopo avermi visitato il medico prende la decisione di mandarmi in ospedale per ulteriori accertamenti.

Un’ora dopo arriva l’ambulanza, ma sono così sicuro di tornare a casa di lì a poco che non porto niente con me. Arrivato al pronto soccorso mi viene fatta una lastra ai polmoni e una tac. Alla fine il medico mi dice che ho una polmonite da Covid 19 e devo essere ricoverato. È da quel momento che iniziano a venirmi brutti pensieri. Vengo portato nel reparto 5A2 dove sono ricoverati i contagiati da Covid. Mi mettono nella stanza 331, letto numero 1, insieme a una signora. I primi due giorni filano via lisci, ma ancora non avevo idea di quello che mi aspettava. Dal terzo giorno inizia l’odissea: arriva il medico del reparto e mi dice che devo mettermi il casco per un’ora, spiegandomi che la saturazione dell’ossigeno non è buona. Arrivano gli infermieri e mi mettono uno di quei caschi che ormai tutti conoscono dalla tv. Comincio a respirare meglio, l’ossigeno mi arriva ma – credetemi – insieme all’ossigeno arrivano brutti pensieri. Il casco produce un forte rumore: è l’ossigeno che entra emettendo dei fischi.  Terribile. Dopo un’ora suono il campanello che è vicino ad ogni letto per chiamare l’infermiere e chiedere di levarmi il casco, ma questo mi risponde che il medico ha deciso di ternerlo non più solo per un’ora ma per 3. Mi casca il mondo addosso… ancora due ore, come faccio? Il tempo non passa mai. Alla fine della terza ora finalmente mi tolgono il casco e mi mettono la maschera, sempre con l’ossigeno. Mi sento molto meglio, ma dopo un paio d’ore gli infermieri tornano e mi rimettono il casco per altre 3 ore… e da ripetersi durante la notte. Mai e poi mai avrei pensato di ritrovarmi in ospedale in questa situazione. Come tutti avevo messo in conto di poter prendere il virus, ma mi illudevo di poter restare a casa in quarantena.

Eppure il peggio doveva ancora arrivare. Il medico decide che da 3 ore di casco per 3 volte al giorno si doveva passare si doveva passare a due cicli da 5 e uno da 7 ore. Ci pensate? Diciassette ore su 24 con il casco! Quando ho tenuto il casco per le prime cinque ore – credetemi – ho pensato al peggio. Mille pensieri confusi erano dentro quel casco. Che non sarei ritornato più a casa, che non avrei più visto mia moglie, mia figlia con le mie 2 carissime nipotine, i miei due fratelli, tutti i parenti, gli amici, la vita politica e i sogni che avevo progettati per il futuro. “Perché?” mi sono chiesto. Perché dovevo finire così a soli 72 anni?

Nel frattempo tra un casco e l’altro inizio a non vedere più la signora che era nella mia stanza. Mi rispondono che è deceduta! Rimango da solo. Solo io con il casco e con tutti i miei pensieri. Nel frattempo non mangio neanche più autonomamente: attraverso un sondino che dal naso scende verso lo stomaco iniziano a nutrirmi con cibo liquido e acqua. Quasi tutti i giorni mi vengono fatti esami del sangue, ma le mie vene sono piccolissime e per gli infermieri non è semplice prelevare la quantità di sangue che serve, tanto che per trovarlo sono costretti a bucarmi braccia e piedi lasciandomi ematosi vistosi. Una volta hanno dovuto perfino prendere l’ecografo. Per fortuna alla fine l’anestesista è riuscito a trovarmi la vena arteriosa e a lasciare un ago nel braccio per misurare la quantità di ossigeno, di anidride carbonica e il pH del sangue. E pensare che sono stato anche donatore Fratres a Santa Croce, donando il sangue 0 negativo (il più ricercato) per ben 48 volte.  Del resto la nostra era una famiglia di donatori: mio babbo Fortunato (il vero Asma), mia figlia Tiziana e il sottoscritto: tutti con il sangue 0 negativo.

Intanto nella mia stanza, a turno, vengono ricoverati un ragazzo pakistano di 23 anni, un signore di Empoli, poi uno di Fucecchio e infine un uomo di origine cinese. Con i due italiani siamo diventati subito ottimi amici: per fortuna uno dopo l’altro sono stati dimessi dopo aver dovuto indossare pure loro il casco, anche se per un tempo minore. Dopo alcuni esami, comunque, anche il mio tempo di permanenza sotto il casco viene ridotto: prima due cicli da 4 e uno da 5 ore, poi due cicli da 3 e uno da 4, mentre nel resto della giornata c’erano gli alti flussi ad ossigenarmi. Di fatto sono con l’ossigeno attaccato 24 ore su 24. Ho però la fortuna di trovarmi in un reparto dove ci sono dottori, infermieri e operatori sociosanitari impagabili per il lavoro che svolgono verso i pazienti. Tre volte al giorno vengono misurati tutti i parametri: pressione, febbre, saturazione, frequenza cardiaca, e battiti respiratori. Ogni volta che mi misurano la saturazione e i battiti respiratori (quelli che contano di più) sono sempre ansioso.

Mai come in questa situazione ha ringraziato l’esistenza del cellulare, che mi ha permesso di collegarmi con i miei familiari attraverso le videochiamate, anche se cercavo di non parlare per non sforzarmi e parlavano solo loro. Quello che mi è dispiaciuto tantissimo è che di non essere stato presente ai compleanni delle mie nipotine Azzurra di 8 anni e Matilde di 10. Le ho viste sul cell. Nel frattempo comunque miglioravo di giorno in giorno, tanto che il 4 marzo mi hanno tolto finalmente il sondino che serviva per nutrirmi e per bere. Così ho rivisto la luce infondo al tunnel. Finalmente potevo ricominciare a mangiare da solo: un po’ di semolino e un fruttino alla mela, ma io li gustavo come se fosse una carbonara. Ero strafelice.

Il giorno dopo mi hanno tolto anche la maschera, stavolta per sempre, ma dovevo tenere comunque gli alti flussi per 24 ore. A metà mattinata mi hanno fatto alzare e messo sulla poltrona per alcune ore. L’umore sale. Sono super debole ma sento che miglioro di giorno in giorno e questo non fa altro che farmi bene. Il giorno 5 marzo la dottoressa Maggi mi informa che mi metteranno gli alti flussi tre volte al giorno per 3 ore, intervallate dalla mascherina. È lei la dottoressa che era presente il mio primo giorno di ricovero che più mi ha più seguito con professionalità, tenendosi anche telefonicamente in contatto con i miei familiari, rassicurandoli sul mio miglioramento ma informandoli anche del pericolo che ho corso. Pericoli che a me sono stati taciuti fino a quando non ho iniziato a stare meglio. Devo un vero grazie alla dottoressa Maggi. Come lo devo agli infermieri: “Oliveri ora stai benino – mi dicevano – ma dovevi vedere in che situazione eri quando sei arrivato”. Ogni volta che sentivo queste parole ringraziavo Dio per avermi salvato. Ho saputo che quando sono entrato nel reparto ero quello messo peggio di tutti, infatti venivano a controllarmi gli anestesisti. Grazie a tutti loro per avermi salvato.

Il giorno 8 marzo mi viene fatto il tampone. La dottoressa di turno mi dice che per il tempo che sono qui ormai sono un po’ la mascotte del reparto, aggiungendo che ho rischiato la terapia intensiva e che me la sono vista davvero brutta. Alle 20 arrivata la risposta del tampone: sono ancora positivo, ma la dottoressa mi rassicura dicendomi che ormai quello che conta sono gli esami clinici. Il 10 marzo è un mese esatto che sono ricoverato. Faccio due chiacchiere con un’infermiera e le spiego che sono un consigliere comunale e che il mio soprannome è Asma. Lei mi chiede il perché e due giorni dopo, nel foglietto del pranzo, oltre a Oliveri Vincenzo trovo scritto “detto Asma”. Ormai avevo preso familiarità con tutto il personale, anche se non era facile riconoscerli dietro le maschere protettive e quindi dovevo sempre chiedere loro sempre chi fossero.

L’11 marzo la sorpresona: la dottoressa Maggi mi ha fa togliere la mascherina e mi mette gli occhialini. Sono strafelice. Con lei e con l’infermiere Marco faccio i primi passi intorno al letto. Sono i primi passi di una seconda vita.  Che gioia! Il 12 marzo nella mia stanza è arrivato il cinese: volevano mettergli il calco ma lui lo rifiutava. Il dottore e l’infermiere per mettergli paura gli dicevano che altrimenti rischiava di morire. A quelle parole mi ritornava in mente che anch’io avevo passato quei brutti momenti. Le notti dormivo poco, aggiornavo sempre punto per punto il mio diario di quello che era accaduto durante la giornata. Non vedevo l’ora di vedere l’alba dalla finestra.

Il 13 marzo la dottoressa Maggi mi lascia senza ossigeno, dicendomi che se supero bene le 48 ore lunedì 15 mi rimanda a casa. Mi commuovo. “Oliveri – mi dice lei – ti ho fatto piangere quando ti ho detto del casco e oggi piangi di gioia”. Il 14 faccio un altro tampone, ma i parametri però non sono buoni: 93% di saturazione e 23 battiti respiratori. Sono agitato. Intanto il pomeriggio, accompagnato da un infermiere, riesco per la prima volta ad andare in bagno. Quella notte non ho dormito quasi per niente. Finalmente lunedì 15 alle 10 arriva risposta del tampone: finalmente sono negativo, ma le dimissioni sono rimandate perché gli esami dell’arteria sono bassi. Dalla gioia che ho provato in quell’istante sono passato alla tristezza. Poco dopo arriva la fisioterapista spiegandomi quali gli esercizi dovevo fare a casa per la riabilitazione Oltre a lei c’erano anche la fisiatra e l’ortopedico terapista: dopo avermi fatto camminare un po’ hanno preso una decisione che non mi hanno comunicato. La sera durante il suo turno notturno è venuta la dottoressa Maggi a salutarmi. L’ho ringraziata di cuore per tutto quello che mi ha fatto e che non dimenticherò mai. Quella notte l’ho passata in bianco pensando che domani sarei potuto tornare a casa e così è stato. Alle 9,40 è passato il primario del reparto 5A2, il dottor Luca Masotti, che dopo alcuni esami mi ha dato la notizia che aspettavo. “Oliveri lei oggi va a casa, anche perché sua moglie che ha avuto il covid è risultata negativa al tampone”. Mi ha fatto delle raccomandazioni su come mi devo comportare e con lui ho fatto l’ultimo dei tanti selfie con i quali ho documentato il mio ricovero. Da quel momento non stavo più nella mia pelle. L’ho subito comunicato a mia figlia dicendole di non dirlo a nessuno perché a mia moglie e ai miei fratelli avrei fatto una bella sorpresa. Di lì a poco arrivano due infermieri con la barella: dopo aver salutato e ringraziato ancora tutto il personale presente mi fanno salire su un’ambulanza della Misericordia di Fucecchio con destinazione casa mia. A quel punto ho fatto una videochiamata a mia moglie chiedendole cosa mi avrebbe preparato per cena. “Ma che dici? Quando ritorni?”. Non ci credeva, era emozionata e felice. “Aspettami che arrivo”. Alle 14,56 arrivo finalmente a casa. Salutata mia moglie e mia figlia, con l’aiuto delle infermiere pian piano sono riuscito a salire fino al secondo piano. Ho baciato il portone del mio appartamento e sono andato sul letto. Sul mio letto. La cosa più desiderata al mondo. Non mi sono dimenticato di tutti coloro che mi hanno scritto dei messaggi sulle pagine di Facebook e whatsapp durante i 34 giorni di ricovero in ospedale.  Sono stati tantissimi, a centinaia. Li ho ringraziati la sera con un messaggio, dicendo loro che Asma finalmente era di nuovo a casa. Per me è iniziata una nuova vita.