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“Quando la bandiera rossa sventolava dal palazzo comunale”, Vellone a 100 anni da quelle elezioni a Santa Maria a Monte

19 ottobre 2020 | 17:12
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“Quando la bandiera rossa sventolava dal palazzo comunale”, Vellone a 100 anni da quelle elezioni a Santa Maria a Monte

A cento anni dalle elezioni comunali del 1920, l’ex sindaco di Santa Maria a MonteBernardo Vellone fornisce un contributo, ricostruendo quella storica giornata. Lo riportiamo di seguito e integralmente

Come avvenuto per molti comuni della Toscana, anche a Santa Maria a Monte le elezioni amministrative dell’ottobre 1920 rappresentarono uno spartiacque nella vita politica e sociale. La bandiera rossa che il 18 ottobre sventolò, non solo metaforicamente, sul palazzo comunale rappresentò una cesura di portata epocale in grado di chiudere il sipario su di un’epoca ed al contempo prospettare vie nuove di sviluppo socio economico in un contesto tale da spingere la Sottoprefettura di San Miniato, nel gennaio 1920, a sollecitare il sindaco ad avviare lavori di manutenzione stradale al fine di dare lavoro a circa 400 braccianti disoccupati e, di conseguenza, prevenire “possibili turbamenti all’ordine pubblico”.

La tornata amministrativa del 1914 aveva già parzialmente modificato la composizione sociale dell’assemblea consiliare, anche se il potere decisionale rimaneva saldamente nelle mani di notabili liberali conservatori. La Grande guerra aveva indubbiamente impresso un’accelerazione alla nascita (nel caso del Partito Popolare Italiano fondato nel 1919) e allo strutturarsi e al consolidarsi dei partiti con basi di massa, in grado di incanalare le forti spinte al cambiamento in atto in una società colpita da una pesante congiuntura sociale ed economica, oltreché da una situazione di crisi politica ed istituzionale acuita dalle regole del nuovo sistema elettorale e dall’oggettiva impossibilità di dialogo tra socialisti e cattolici democratici, le energie nuove all’interno del sistema parlamentare.

In merito alla campagna elettorale per l’elezione del sindaco, il settimanale cattolico sanminiatese “La Vedetta” scriveva: “Fervono i lavori di preparazione per le prossime elezioni amministrative ed allo scopo sono state tenute diverse adunanze delle sezioni (del Partito Popolare, costituite nei primi mesi del 1920, ndr) di San Donato e Montecalvoli che scendono in lotta con tattica intransigente e con scheda di maggioranza”. Nei comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti, come era all’epoca Santa Maria a Monte, si continuava a votare con il sistema elettorale maggioritario; sistema che spinse i liberali del “Circolo Democratico” e i cattolici a ricercare un accordo in chiave antisocialista. Il frutto delle trattative (il cui testo originale è giunto ai giorni nostri grazie all’attività di ricerca di Giovanni Bracci) si concretizzò con la sottoscrizione di un’intesa politica e nella presentazione di una lista liberal popolare in grado di aggregare possidenti agrari, quali l’ex sindaco Pietro Mori, artigiani, contadini e commercianti; un blocco interclassista orientato alla “pace sociale” e nettamente contrapposto alla lista messa in campo dal Partito Socialista, formata nella quasi interezza da braccianti ed operai.

La campagna elettorale conobbe momenti di tensione e toni assai accesi nei comizi, come si evince dalla lettura del periodico socialista “Vita Nuova”:“(…) i socialisti di Santa Maria a Monte e di Montecalvoli non vi temono, essi hanno solo una bandiera ed è quella che guida i proletari della gloriosa Russia Comunista (…) i colpi del martello spezzano le catene della servitù, la falce miete ogni ostacolo ed il Socialismo passa”.

Al termine della giornata elettorale svoltasi il 17 ottobre la lista socialista prevalse per 100 voti su quella liberal popolare. “Vita Nuova” sentenziava che: “Ormai nel nostro Comune l’dea socialista ha piantato profonde radici”.

Un’analisi che vada oltre la legittima opera di propaganda mette, tuttavia, in luce come quella ottenuta dalla lista socialista fosse una vittoria non esaltante se raffrontata ai risultati ottenuti negli altri comuni del comprensorio (eccezione fatta per Castelfranco dove si affermarono i liberali), indice del buon livello organizzativo raggiunto dai cattolici democratici e confermato dall’elezione di tre consiglieri comunali di minoranza: Angiolo Giorgi, (contadino), Giuseppe Ristori (perito agrario) e Raffaello Bianchi (contadino), mentre il quarto, Oreste Baggiani (commerciante), era da computarsi in quota liberale.

Il 18 ottobre, come detto, la bandiera rossa veniva apposta al palazzo comunale. Per i socialisti risultarono eletti: Giovanni Botti (operaio), Ernesto Nesti (operaio), Cesare Baggiani (operaio), Luigi Falleri (bracciante), Alessandro Rossi (bracciante), Lorenzo Ristori (bracciante), Teseo Fogli (esercente), Franco Santarnecchi (bracciante), Giuseppe Volpi (operaio), Narciso Nelli (mattonaio), Arturo Bastianelli (bracciante), Umberto Moroni (rappresentante), Virgilio Eustachi (bracciante).

La seduta di insediamento del 30 ottobre, oltre ad eleggere alla carica di Sindaco il “figlio di lavoratori e lavoratore egli stesso” Giovanni Botti, portò alla nomina della Giunta comunale che risultava così composta: Cesare Baggiani (Finanza), Benedetto Nesti (Lavori pubblici), Teseo Leopoldo Fogli (Igiene), Narciso Nelli (Istruzione pubblica, approvvigionamenti); assessori supplenti erano Franco Santarnecchi e Umberto Moroni.

La medesima seduta divenne inoltre occasione per i due schieramenti per marcare in maniera netta le rispettive posizioni ideologiche. Il Consigliere Ernesto Nesti presentò un ordine del giorno del seguente tenore: “La maggioranza consiliare di questo comune manda un pensiero reverente a tutte le vittime politiche, facendo voti che la Direzione del Partito prenda una posizione netta onde uscire una buona volta dalle forme verbali della protesta e quindi accettare il guanto di sfida della reazione”. A voler connotare con accenti massimalisti la posizione della maggioranza si proponeva inoltre di “intensificare la lotta fino all’estremo limite perché alla Russia dei Soviet sia riconosciuto il diritto all’esistenza, chiudendo così uno sconcio morale della storia contemporanea”.

Per l’opposizione fu l’unico consigliere presente in aula, il popolare Giuseppe Ristori ad intervenire per dichiarare il voto contrario all’odine del giorno Nesti precisando che non lo condivideva “per diverse considerazioni e principalmente perché gli stessi inviati del Partito Socialista non si sono ancora pronunciati sul movimento russo e sulle condizioni attuali della Russia”.

La posizione sostenuta dai popolari ed espressa dal Ristori non difettava in termini di lucidità d’analisi in relazione ad una situazione politica in rapido mutamento, dal momento che nel febbraio 1921, a seguito del Congresso socialista di Livorno gli assessori Santarnecchi e Nelli si dimisero dalla Giunta, in quanto, come ebbe a scrivere il Nelli, l’esito del Congresso li vedeva “tagliati fuori dal programma del Partito Socialista”. Al teatro San Marco di Livorno era nato il Partito Comunista d’Italia. Tuttavia, ancor prima della scissione di Livorno la Giunta comunale aveva da subito approvato una serie di atti che la connotavano in senso tutt’altro che riformista; tra questi ricordiamo la deliberazione del 16 novembre 1920 con la quale si prevedeva l’ aumento della sovrimposta fondiaria (1/10 sui fabbricati e 9/10 sui terreni), per cui le entrate da tale imposta per il 1921 sarebbero state pari a 272.000 Lire, con un incremento di 163.735,90 Lire rispetto all’anno precedente. Ed ancora la deliberazione del 9 gennaio 1921, atto con il quale in relazione all’onere del pagamento delle visite mediche si stabiliva che fossero gratuite per i poveri, mentre per i “semi poveri” e gli abbienti veniva prevista una partecipazione alla spesa proporzionata alla ricchezza posseduta. (Tale delibera sarebbe poi stata annullata dagli organi di controllo).

Possidenti agrari (grandi e medi), commercianti, esercenti vedevano nelle scelte compiute dalle Giunta un intento punitivo sotto il profilo economico; tale situazione degenerò finanche allo scontro fisico che coinvolse lo stesso Sindaco Botti, ed alla chiamata a raccolta degli operai impegnati ai lavori sul canale Usciana al suono della tromba. Nei giorni successivi il massiccio intervento della forza pubblica riportò la calma sulla piazza del Comune, abbandonata a corsa dalla popolazione a seguito di una scarica di colpi di moschetto sparata in aria.

Il sistema liberalconservatore, che era riuscito a lungo a controllare la società non riusciva più a contrastare sul piano politico la propulsione delle idee e della prassi socialista, ed iniziò, quindi, a scrutare altrove: ossia verso Firenze culla del fascismo toscano e base organizzativa delle spedizioni squadriste. Alla militarizzata violenza del fascismo fiorentino si rivolsero quanti ( “benpensanti”, come vennero definiti dallo squadrista Mario Piazzesi) avevano intenzione di porre fine all’esperienza amministrativa democratica nel nostro Comune. Fra febbraio e marzo del 1921 in Toscana lo scontro armato fra “neri” e “rossi” andava ineluttabilmente a sostituirsi al confronto politico. A Firenze si lanciavano bombe, si costruivano barricate nei quartieri popolari, si sparava nelle strade e si moriva combattendo. Ancora più vicino a noi, la Città di Empoli divenne il teatro di un sanguinoso scontro a fuoco fra la popolazione e una colonna di militari scambiati per squadristi.

Fu così che il 12 marzo una spedizione punitiva prese di mira il nostro territorio: la Giunta socialista, le sezioni politiche della sinistra, il mondo della cooperazione. In poche ore veniva distrutto un patrimonio di organizzazione e socialità. Il cattolicesimo democratico (le sezioni del PPI, le cooperative di produzione bianche) nei mesi successivi, consolidatosi il fascismo in ambito locale, cessarono anch’esse d’esistere, con la differenza che l’estinzione di questi soggetti partecipativi avvenne in accordo con lo squadrismo locale senza subire violenze e distruzioni.

La ricostruzione dell’azione squadrista narrata da parte di uno dei protagonisti, il fiorentino Piazzesi, ci descrive la trasferta in treno da Firenze a Pontedera, e poi il viaggio verso Montecalvoli e “dirupta Chartago, il circolo rosso locale”, ed ancora l’arrivo nel capoluogo e la distruzione delle sedi anarchica e socialista.

Il Piazzesi attribuiva il successo dell’incursione esclusivamente all’azione svolta dal manipolo, mentre nella ricostruzione fatta dal periodico di sinistra “L’ora nostra” veniva stigmatizzato il ruolo avuto dalle forze dell’ordine nel sostenere e proteggere gli squadristi. Particolare di non poco conto visto il contenuto della lettera di dimissioni di Sindaco, Giunta e maggioranza presentata a seguito delle “dimostrazioni inscenate contro l’amministrazione socialista di questo comune dai fascisti di Firenze, coadiuvati dalla forza pubblica, alla violenta, ingiustificata devastazione dei locali della Casa dei Cooperatori della frazione di Montecalvoli e all’imposizione fatta al sindaco dagli stessi fascisti di dimettersi dalla carica (…)”. Dimissioni presentate pur nella convinzione di continuare a godere della “fiducia intera della grande maggioranza della popolazione”, e per non essere “ragione di turbamento della pace del paese”.

All’epoca dei fatti, marzo del 1921, secondo gli studi di Palla in Italia si contavano oltre 80.000 fascisti, di questi i toscani erano solo 2600. Tuttavia la maggioranza socialista, popolare, liberale, comunista, democratica e repubblicana non fu in grado, per divisioni e miopia politica, di arginare “il rapido processo di impiantazione del fascismo”.

Ai primi di maggio l’esperienza di governo socialista poteva dirsi definitivamente chiusa: il giorno 5 con una duplice cerimonia venivano presentati la bandiera dell’Associazione Nazionale Combattenti ed il gagliardetto del locale fascio di combattimento.

Bernardo Vellone