“Ho ucciso Achille Occhetto”, il travaglio interiore per la fine di un “secolo”

L'ultimo libro di Cavallini e Cantini è un piccolo capolavoro letterario che cerca di rimettere in moto le idee

Eric Hobsbawm definì il ‘900 Il secolo breve, contraendo gli estremi cronologici di quei cento anni in poco più meno di 80, identificando i nuovi limiti tra il 1914 e il 1991, il periodo di ascesa e affermazione dei totalitarismi che impattarono profondamente sul mondo occidentale e non solo, dai grandi temi fino alla vita della Provincia italiana.

Pilade Cantini e Marcello Cavallini nel loro ultimo libro “Ho ucciso Achille Occhetto”, prendono in esame proprio la fine del Secolo Breve in Italia e nella provincia toscana. Una fine che per loro si identifica come per Hobsbawm con il crollo del muro di Berlino e in chiave nazionale con la svolta della Bolognina, ovvero con lo scioglimento del partito Comunista.
Partendo dalla narrazione di quei giorni distillata e cristallizzata dall’occhio degli autori, prende le mosse una trama fine ed elaborata che da un racconto a tratti realistico e forse anche un po’ magico sfuma nel fantapolitico. Un libro breve, quasi un racconto lungo, che si legge tutto d’un fiato, grazie a un intreccio avvincente e ritmato, che trasporta il lettore in quell’inizio degli anni ’90 quando in Italia era ancora viva la memoria degli anni di piombo, Tangentopoli non era ancora stata inventata e il segretario del Pc era Achille Occhetto.

Il pretesto da cui muove la storia è la questione dello scioglimento del PC e la nascita della nuovo partito. Proprio da qui, al di là della narrazione degli eventi del romanzo, gli autori innescano, con leggerezza e ironia uno spunto di riflessione storica, sociale, politica su cosa ha significato la fine del partito Comunista italiano e gli effetti che ha avuto sulla politica e sulla vita della persone dei decenni successivi fino ai giorni nostri. Un’analisi concisa ma graffiante, che ci consegna una lettura impietosa degli ultimi 30 anni di storia caratterizzati dell’affermazione di un nuovo sistema sociale e politico fortemente improntato “al capitale” a discapito delle classi più deboli, come fanno notare tra le righe gli autori. Un libro che per quanto abbia la caratura di un romanzo veloce, ha il merito di provare a far riflettere il lettore senza fronzoli e retoriche sui fatti degli ultimi decenni, con un approccio delicatamente storicistico.

Dal punto di vista narrativo, “Ho ucciso Achille Occhetto” è un libro colto ed estremamente raffinato, in cui gli autori hanno dimostrato una maturità letteraria che difficilmente si trova nell’editoria minore nella provincia toscana. Edito da Eclettica, nella collana Vagone Ristorante, il libro di Cavallini e Cantini presenta una pluralità di livelli di lettura che lo rende un’opera semplice ma allo stesso tempo estremamente articolata nello sviluppo e nei riferimenti letterari a cui gli autori hanno sapientemente attinto, senza mai scimmiottare i grandi nomi della letteratura ma facendo quelle esperienze narrative proprie e riattualizzandole, per restituire al lettore una storia che si presta a vari livelli di lettura.

Nella macrostruttura, il libro è a cavallo tra una spy story e il romanzo fantapolitico: non mancano i riferimenti a Complotto contro l’America di Philip Roth, ma anche alla letteratura sudamericana soprattutto nella clandestinità del protagonista che a tratti ha un sapore quasi di realismo magico. Cavallini e Cantini conoscono profondamente anche la grande letteratura nord americana, in particolare John Steinbeck, premio Nobel oggi quasi dimenticato, passato alla storia per Furore e Uomini e Topi. Proprio da quest’ultima opera gli autori recuperano una grande intuizione, andando a strutturare, almeno nella prima parte del libro, una piccola tragedia greca dove il protagonista Adelio Marchesini vive il suo travaglio interiore per la fine del Partito Comunista italiano, fino ad entrare in una sorta di clandestinità e gli altri Compagni, quelli della Casa del popolo e della sezione locale del Pc rappresentano una sorta di coro, che con leggerezza narra al lettore il contesto di partenza.

Tanti personaggi, tutti sbozzati con sagacia ed eleganza, tanto che alla fine gli autori restituiscono al lettore una carrellata di prototipi letterari: dal segretario di sezione Strambellini, per finire con il compagno “Tafano” e con “la Marisa”, sbozzati bene con la sottigliezza manzoniana riattualizzata nei tempi narrativi di oggi, estremamente veloci e dinamici, andando a creare una sorta di narrazione d’ambiente ricca di ironia disincantata per quel mondo, quello della rossa Toscana nel 1991.

Un libro dal sapore toscano, senza che gli autori dicano mai di averne ambientata buona parte nella nostra regione e più in particolare nel Valdarno inferiore; a suggerirlo al lettore è l’uso estremamente colto di un toscano illustre ammodernato e l’ambientazione che per quanto realistica e a tratti anche comica non sfocia mai nella bestiale volgarità di una cinematografia d’ambiente che trova i suoi riferimenti in “Berlinguer ti voglio bene” e nelle più recenti pellicole di autori toscani come Pieraccioni e Benvenuti. Il libro di Cavallini e Cantini rimane sempre una spanna sopra, cogliendo in modo diverso e altrettanto efficace quello che proprio Giuseppe Bertolucci aveva raccontato con Roberto Benigni e Carlo Monni.

Un’ultima nota sull’opera va per il sapiente lavoro fatto sulla lingua che, partendo dal toscano illustre di Manzoni tanto che il protagonista in un episodio ricorderà molto da vicino Renzo Tramaglino, viene decantata in un italiano raffinato, mai vernacolare, che però riesce a restituire ugualmente tutto il fascino e l’umorismo di un toscano d’ambiente che è parte dell’identità culturale. Un’operazione non facile anzi quasi impossibile, in cui gli autori sono riusciti a fare un piccolo miracolo culturale e filologico, nobilitando ancora una volta, qualora ce ne fosse stato bisogno, il Toscano illustre come lingua nazionale dalle molte potenzialità.

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